Ci siamo mai chiesti quante volte diciamo “grazie” nell'arco di una giornata? A volte basta così poco per esprimere la nostra riconoscenza nei confronti di persone della cui preziosità non ci rendiamo neppure conto perché occupati in mille pensieri o perché - peggio ancora - riteniamo che tutto quanto ci sia dovuto, come se gli altri fossero quei “servi inutili” del Vangelo di domenica scorsa che non han fatto altro che il loro dovere nei nostri confronti.

            Di certo, non possiamo dimenticarci di esprimere questo sentimento di riconoscenza verso tutte quelle persone che, a partire dai nostri familiari ci fanno dono di sé quotidianamente e noi spesso lo diamo per scontato; oppure a coloro che, nell'ambito del volontariato, donano tempo, energie, risorse agli altri per puro spirito di dedizione. Penso soprattutto al nostro ambito, dove capita spesso che l'impegno profuso con fatica e senza alcuna ricompensa da parte dei nostri più stretti collaboratori, ci aiutano a costruire la comunità cristiana, venga - soprattutto da noi clericali - letto come qualcosa di dovuto, qualcosa che scaturisce da quella ministerialità battesimale che ci deve vedere tutti, laici, religiosi e chierici, spontaneamente e naturalmente coinvolti nella costruzione del Regno.

            Certo, si diviene capaci di ringraziare quando si è sperimentato prima di tutto su sé stessi la gratuità della grazia di Dio. Si è misericordiosi nella misura in cui si riconosce di aver ottenuto misericordia; si è attenti agli altri nella misura in cui si è consapevoli delle attenzioni che anche noi costantemente riceviamo da Chi ci ha creati. Mentre invece capita che neppure la misericordia che Dio usa nei nostri confronti è capace di smuovere in noi atteggiamenti di misericordia e gratitudine.

            Il Vangelo di oggi è emblematico: su dieci lebbrosi sanati, uno solo torna indietro a ringraziare. La vita di fede deve essere tutta quanta basata su un “grazie”, perché è da Dio che riceviamo la grazia di nascere e vivere; e la vita prosegue in perenne rendimento di Grazie per ciò che abbiamo ricevuto attraverso una carità operosa e condivisa, e terminerà con un “grazie” per la misericordia che Dio, fino all'ultimo, userà nei nostri confronti. Non dimentichiamoci però di guardare a quell'unico che torna a ringraziare il Maestro per l'avvenuta guarigione: si tratta di un samaritano, uno scomunicato, uno che non può essere salvato perché fuori dal popolo della salvezza e per di più, lebbroso: immondo non solo in senso fisico, ma anche in senso morale. Ebbene, quest'uomo è additato da Gesù come modello di fede, al punto che viene salvato proprio in virtù della sua fede.

            A dispetto di coloro che sente di appartenere al popolo della salvezza, che ha l'unica preoccupazione di andare dai sacerdoti a ottenere il certificato di guarigione; gente che invece di dire “grazie” pensa solo a ottenere ciò che ritiene gli sia dovuto; gente che considera scontata la Grazia ricevuta da Dio, per cui non c'è affatto bisogno di tornare a ringraziarlo. Si saranno salvati anche loro, alla fine? Non lo sapremo mai. Ma di certo, non possono essere presi a modello di fede, e quindi non aiuteranno mai gli altri a salvarsi, perché chi non sa dire “grazie” non è capace di insegnarlo agli altri.

            E dal momento che viviamo in un istante storico nel quale tutti invocano la pace, tutti esultano per la pace e tutti si dicono uomini di pace senza peraltro dire un “grazie” a chi la pace la costruisce da sempre nel silenzio e fuori dal clamore mediatico e anche mettendo a rischio la propria vita, permettetemi di concludere con una delle frasi più belle pronunciate a braccio - come suo solito - da Papa Francesco, nell'ottobre di due anni fa: “L'ingratitudine genera sempre violenza, mentre un semplice ‘grazie' può riportare la pace!”.

                                                                                                                                                                                          don Franco Bartolino 

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