Di fronte all'atteggiamento delle autorità religiose del tempo di Giovanni il Battista e di Gesù, ci viene spontaneo usare l'espressione forte del profeta Sofonia: ti fanno cadere le braccia! E per fortuna che oggi non vengono citate: se ne guardavano bene dall'avvicinarsi al Battista, il quale, quando ha avuto modo di trovarsi a tu per tu con alcuni farisei e sadducei, la parola più bella che ha rivolto loro è stata “razza di vipere”. Però, c'è davvero da considerare come deprimente il fatto che nessuna delle autorità religiose di allora si rivolge a Giovanni il Battista per chiedergli come intraprendere un serio cammino di conversione in vista dell'arrivo del Messia, ritenuto da Giovanni ormai imminente.
Tre sono, infatti, i gruppi di persone che si rivolgono a Giovanni nel brano di Vangelo che abbiamo ascoltato, e nessuno dei tre appartiene a una categoria religiosa: ci sono le folle, i pubblicani e i soldati. Perché sono loro a rivolgersi a Giovanni e non invece coloro ai quali era direttamente rivolto l'invito a preparare la strada al Messia in quanto suoi “rappresentanti”? Forse era dovuto al fatto che la predicazione del Battista era molto diversa da quella che si era soliti ascoltare dalle autorità religiose del tempo. Per Giovanni, infatti, non era sufficiente avvicinarsi alla Parola di Dio attraverso l'osservanza della Legge di Mosè: dopo aver ascoltato e accolto la Parola di Dio occorre sempre passare a comportamenti che siano la concretizzazione reale della nostra professione di fede. Se la fede rimane puramente teorica e non incide profondamente anche su uno stile di vita concreto, serve a poco.
Queste tre categorie di persone, forse non così immediatamente vicine a un cammino di fede, hanno colto che l'annuncio di Giovanni è un annuncio pieno di speranza, e di conseguenza sono desiderose di sapere come ci si debba comportare perché dalla fede si arrivi alla prassi di vita e lo dimostrano con questa domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. Colpisce il fatto che nessuna delle tre risposte di Giovanni invita all'osservanza rigorosa della Legge di Mosè. Il tema essenziale della proposta del Battista è un cambio di atteggiamento nei confronti delle persone, quindi qualcosa che punti a creare relazioni umane più giuste. Le folle sono invitate a condividere cibo e vestiti, i pubblicani a non esigere più del dovuto nella riscossione delle tasse, i soldati a non abusare del loro potere e a bramare guadagni maggiori.
La strada del cambiamento di vita è tracciata in modo preciso da Giovanni: non c'è vera conversione, non c'è vero ritorno a Dio dove non c'è ritorno all'uomo, ovvero, dove non ci si preoccupa innanzitutto di ricreare relazioni più umane. E quel che più sconvolge, in tutto questo, è che l'attenzione di Giovanni è rivolta a categorie che non erano certamente stimate dall'opinione pubblica e invece, nella predicazione del Battista c'è spazio anche per loro. Il Regno di Dio annunciato da Giovanni assume, secondo i canoni delle autorità religiose, le fattezze di uno scandalo, di un insieme di persone che altro non meriterebbero se non di essere bruciate nel fuoco della Geenna, come si diceva allora.
Anche oggi, con troppa facilità, all'interno della comunità di fede del nuovo Israele, ovvero la Chiesa, da parte di molti che si considerano “integri” nella fede, assistiamo ad atteggiamenti pregiudiziali verso categorie ritenute “fuori dai canoni della fede”, magari solo perché lontane dalla comunità, o perché hanno avuto una vita piena di fallimenti o perché non in piena comunione con ciò che la Chiesa esige per essere e dirsi “perfetti cristiani”. Giovanni stesso, poi, andrà in crisi, perché il Messia da lui annunciato sarà ancor più misericordioso e accogliente con i “pubblici peccatori” di quanto egli lo fosse già stato. Ma la grandezza di questa “voce che grida nel deserto” si manifesterà attraverso l'umiltà di riconoscere che chi verrà dopo di lui è più forte di lui, ed egli non è neppure degno di farsi suo servo.
Di fronte a persone di fede di questo calibro, sono certo che anche il profeta Sofonia non si sarebbe lasciato cadere le braccia. E permettetemi di dire che, nella Chiesa, abbiamo grande nostalgia di profeti come il Battista!
Nella Seconda Domenica di Avvento la liturgia ci accompagna a contemplare il mistero dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria, mistero che, gradualmente, è diventato parte integrante della vita di fede della Chiesa.
Il Vangelo ci rivela come Dio l’abbia voluta e preparata per il suo disegno. Nell’Annunciazione dell’Angelo, Maria viene definita piena di grazia. Il nome nuovo ricevuto la designa come destinataria di particolare benevolenza da parte di Dio: la Vergine è piena di grazia perché ha il favore e la compiacenza gratuita del Signore.
La solennità odierna non corrisponde a un’interruzione del percorso di Avvento appena iniziato. Al contrario: Maria diventa un’icona vivente del piano di Dio, l’incontro tra il suo progetto di amore e la nostra risposta generosa. Dio fa grazia e tuttavia non agisce da solo, ma chiede all’umanità di fare la sua parte.
In Maria ci viene mostrato come «nulla è impossibile a Dio» e noi spesso ci sbagliamo quando ingigantiamo il potere del male. In lei Dio ci dona un’immagine viva di quello che egli può realizzare quando una creatura gli apre il cuore e si rende disponibile, ci mostra come il male non sia ineluttabile e ci fa vedere come egli mantenga le promesse, anche quelle che appaiono irrealizzabili.
Maria insegna agli uomini d’oggi che entrare nel mistero di Cristo è mettersi a “servire”. Scelta per “madre”, si dichiara “serva”. E nella sua vita ha avanzato nel cammino della fede, della dedizione, dell’obbedienza, dell’amore, della speranza. Maria ci insegna che bisogna più fare che parlare, preferire l’opera umile ma tenace e carica di amore, mettersi a servizio anche quando si è chiamati a compiti importanti.
Maria è modello di fede adulta e consapevole, di virtù mature, cresciute in un continuo esercizio di impegno per gli altri, di ininterrotta apertura all’amore. E’ icona vivente di quel progetto di amore e di salvezza che Dio si impegna a realizzare.
Come attendere il Signore, come accoglierlo in questo Natale? Mettiamoci alla sequela di Maria, per accogliere il frutto benedetto del suo ventre.
Impariamo da lei il silenzio per accogliere il Verbo fatto carne. Non possiamo accorgerci della venuta di Gesù se siamo immersi nel frastuono, nelle distrazioni, nelle mille cose da fare che ci rubano la calma.
Ella ci suggerisce la contemplazione della vita da dove nasce lo stupore, l’umiltà e la fede, la speranza e la carità. È nell’ottica della redenzione operata dal Signore Gesù che possiamo comprendere la celebrazione di oggi: la Vergine Maria fa parte del mistero di Cristo; la Madre è associata al mistero del Figlio e da esso non può essere disgiunta.
Anche noi come Maria pronunciamo oggi il nostro “Eccomi” che, nella vita di ogni giorno, si concretizza nella disponibilità, nella fiducia e nell’abbandono in Colui che è nato per noi.
Alla grazia di iniziare un Nuovo Anno Liturgico vogliamo dire: Grazie Signore!
Grazie, perché sappiamo che Tu sei sempre con noi, e con pazienza, sapienza e bontà, ci accompagni nel corso dei tempi, nel cambiamenti epocali, nelle vicende belle e brutte della nostra vita e della Storia.
«Ecco, verranno giorni - oràcolo del Signore - nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d'Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra» (cfr. Ger 12,33-38).
Grazie perché le tue promesse, annunciate dai profeti di un tempo, si compiono nel Tuo Figlio che è venuto e vieni ogni giorno nella Liturgia delle nostre Chiese, nella testimonianza dei cristiani, nell’operare di ogni uomo e donna di buona volontà, semi di speranza in questo mondo, con le sue dinamiche trasformatrici: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina»(Lc 21,25-28.34-36).
Grazie, perché la nostra liberazione è vicina ogni volta che permettiamo l’entrata all’amore e al perdono, alla pace e alla riconciliazione.
La nostra liberazione è vicina ogni volta che, con la forza del Tuo Spirito, riusciamo a non appesantire i nostri cuori in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita, riservandoci quello spazio di tempo di preghiera personale e comunitaria, da permettere la continuità del tuo Regno in mezzo a noi.
Grazie, perché la Tua Chiesa, anche quest’anno, ci da la possibilità di sentirci fratelli e sorelle, pellegrini di speranza che camminano insieme, con piedi fermi e capo alzato, annunciando la venuta del Tuo Figlio: il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo. Amen.
«Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell'amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1Ts 3,12-4,2).
Era l'Anno Santo 1925, quando Papa Pio XI istituì la Solennità di Cristo Re dell'Universo. Se facciamo un po' di memoria storica, ci accorgiamo come dietro a questa scelta non ci fossero solamente motivazioni liturgiche o dottrinali. Sul mondo di allora, infatti - in particolare sull'Europa - incombevano pericolose forme di totalitarismo politico: dal nazifascismo al comunismo, l'idea che sembrava emergere in quel tempo era quella di una volontà di dominio assoluto, spesso supportata da aberranti teorie di alcuni esseri umani rispetto ad altri attraverso la discriminante della razza.
Pio XI non si sbagliava, quando diceva di intravedere in questi modelli il rischio di un'intensificazione della violenza, verbale e fisica: egli morì pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il cristiano, secondo Pio XI, non poteva riconoscersi nell'uno o nell'altro modello, perché in entrambi era messa in questione la supremazia sul mondo e sulla storia di Gesù Cristo, unico vero Salvatore dell'Universo. E nemmeno voleva che la Chiesa avanzasse la pretesa di esercitare il dominio sui popoli e sulle nazioni del mondo in nome di un Dio Re. Far combaciare la Chiesa con i regni di questo mondo avrebbe portato a una pericolosa duplice deriva: quella per cui, da una parte, la Chiesa dovesse sottostare a tutte le decisioni e le scelte del potere politico tacendo su ogni tipo di sopruso, e quella opposta, per la quale la Chiesa si sentisse autorizzata a diventare una “teocrazia”, nella quale la religione detenga il potere spirituale e temporale allo stesso tempo, cosa peraltro ancora molto presente in alcune visioni religiose cosiddette “integraliste”.
“Ma il mio regno non è di questo mondo”, dice per ben due volte Gesù a Pilato nel famoso brano di vangelo che oggi abbiamo ascoltato: questo significa che nessun modello politico che cerchi di conciliare i valori della fede con le leggi del potere può essere assunto dai cristiani come espressione del Regno di Dio. Pilato fa ovviamente fatica a capire che cosa intende dire Gesù: da buon politico, è preoccupato solamente che a Gerusalemme non ci fosse altro regno che quello di Roma. Per questo, Gesù cerca di offrire a Pilato dei criteri per comprendere in cosa consista il suo Regno. Tra questi criteri, ce ne mette uno molto importante, anzi fondamentale: quello della verità, alla quale egli è venuto a dare testimonianza: una verità basata sulla responsabilità e sulla non-violenza.
Quello di Gesù è un Regno in cui ognuno deve avere il coraggio di testimoniare la verità non nascondendosi dietro a formalità che scarichino sugli altri la responsabilità di costruire una società più giusta come fanno molti politici quando si nascondono dietro la Costituzione da rispettare quando fa comodo a loro, ovviamente. Gesù vuole da Pilato - ma in fondo lo vuole da ognuno di noi - che ci assumiamo la responsabilità di riconoscerlo come Re e Signore della storia, della nostra storia personale e di quella dell'umanità, e di conseguenza di fare qualsiasi cosa purché la giustizia che il Regno di Dio è venuto a portare si compia.
Fatti disastrosi che riguardano il clima, la guerra, la violenza sulle nostre strade e spesso anche nelle nostre case, sono oramai all'ordine del giorno: a volte perché ci tocca sperimentarli sulla nostra pelle, e a volte perché entrano nelle nostre vite attraverso i social. Ma anche qualora non fossimo stati toccati da alcuna esperienza di questo tipo, proviamo - anche solo per un istante, aiutati magari anche dalle immagini che ci arrivano quotidianamente dalla Palestina, visto che dopo tanti secoli la lezione della storia non è ancora stata compresa, a immaginare ciò che la comunità dell'evangelista Marco deve aver vissuto con l'evento della drammatica distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 dopo Cristo da parte dell'Impero Romano. Ciò che videro e vissero in prima persona i sopravvissuti fu talmente spaventoso da spingere Marco a dedicare un capitolo intero della sua opera alla rilettura di quell'evento sulla scorta di vari detti e discorsi profetici di Gesù, raccolti in un unico capitolo perché la comunità non perdesse la memoria di quei fatti.
In questo contesto di totale desolazione, l'evangelista Marco ricorda alla sua comunità alcune parole di Gesù piene di grande speranza, e sono esattamente quelle che abbiamo ascoltato nel Vangelo di oggi. “Dopo quella tribolazione”, ovvero dopo aver riportato alla mente quei drammatici fatti della storia, lo scenario apocalittico si sposta nel firmamento del cielo: a essere sconvolta non sarà solamente la terra, ma anche le potenze del cielo. Detto così, pare che non serva molto a tranquillizzare chi legge: in realtà, il messaggio che vi si cela è di grandissima speranza. Nel linguaggio biblico si parla di “potenze del cielo” per riferirsi, in realtà, ai potenti della terra. Era consuetudine, per i leader politici del tempo, essere considerati come figli delle divinità adorate dai loro popoli, in particolare come figli del Sole e della Luna ritenuti capaci di illuminare e guidare anche nell'oscurità della notte.
Però coloro che si ritengono tali, presto o tardi termineranno di esercitare il loro potere; così come termineranno pure le cose della terra, ovvero gli eventi della storia con tutta la loro drammaticità e con quel carico di incertezza che sembra farci dire che alla violenza non c'è mai fine. Invece, anche la violenza finirà: finirà per i potenti della terra e finirà pure per il mondo, dove essi hanno potuto far prevalere tutti i loro giochi di potere. Di certo, non finirà l'unica potenza che, in tutto questo perenne sconvolgimento, rimane in eterno: Dio e la sua Parola, il Dio Signore della Storia, più potente di ogni potente della terra. A noi spetta solo il compito della fiducia in Dio, una fiducia capace di riconoscere i segni dei tempi con la saggezza dell'agricoltore, che dai rami e dalle foglie è in grado di riconoscere l'arrivo della buona stagione, della stagione dei frutti. E il frutto della buona stagione di Dio non si chiama morte e distruzione: si chiama salvezza.