Il Vangelo di Marco che ascoltiamo questa domenica è tratto dal sesto capitolo. L’evangelista descrive i fatti molto sinteticamente, donando al racconto un ritmo incalzante e ci porta a sentire l’urgenza di Gesù che è quella di far giungere la buona notizia alle genti.
Nei versetti che precedono il brano di oggi, Gesù non viene ascoltato dalla sua gente e proprio questo rifiuto lo porta ad affermare che «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6, 4). Questa esperienza fa scattare la stesura dei versetti della liturgia odierna: Gesù chiama e manda i suoi apostoli dando loro indicazioni molto chiare.
Sa che il Regno dei cieli non è una questione legata all’avere tutte le risposte, ma a fidarsi del maestro, accettando di non indossare nulla perché possiamo essere rivestiti dalla sua Grazia. I sandali sono la calzatura tipica del tempo, e non impediscono ai piedi di venire a contatto con la polvere, che è frutto della vita di quel luogo e sporcarsi con essa significa farsi compagni di viaggio delle persone che si incontrano.
Quando qualcuno non è interessato al loro messaggio, Gesù invita gli apostoli a scrollarsi di dosso la polvere, non si impone, ma si propone e ognuno è libero di decidere se accogliere o meno il suo messaggio.
La tunica è una, così come la vita è unica e la cintura ci permette di non perderla. Abbiamo la responsabilità di preservare questa tunica, così come nel Battesimo siamo stati invitati a mantenere candida la veste che ci è stata donata quale immagine della purezza della nostra anima rinata in Cristo.
Il bastone indica che la strada è lunga e faticosa. È come il testimone nella staffetta e rappresenta la continuità nella storia della presenza amorevole di Dio Padre: come ha chiamato Abramo, che ha accolto l’invito e iniziato il suo viaggio,così oggi interpella noi.
Il brano termina ponendo l’accento sui segni di liberazione e guarigione che avvengono per intercessione degli apostoli. Anche oggi dobbiamo fare i conti con la malattia fisica e spirituale e con le insidie del demonio che vuole allontanarci dalla vera vita, ma se accogliamo Gesù, la malattia e il male non avranno l’ultima parola su di noi.
La ribellione, propria della natura umana caduta nel peccato della disubbidienza, accompagna la storia dell' umanità, dalla quale cogliamo ogni giorno le conseguenze. Il Signore però non si lascia vincere in generosità e alla sordità del suo popolo suscita sempre, in mezzo ad esse, i suoi profeti: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro». (Cfr. Ez 2,2-5). La vocazione dei profeti intanto è quella di preparare il cammino e i cuori degli uomini alla Parola del Dio Vivente, il Figlio Suo, il quale ha portato a compimento la risposta d'amore del Padre alla sordità del suo popolo, attraverso la sofferenza. "Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando" (cfr. Mc 6,1-6).
È Lui, il Figlio dell'Uomo, che umilmente continua percorrendo i villaggi del mondo e dei cuori, donando gratuitamente il messaggio di salvezza. È Lui, Parola viva che bussa alla porta dei nostri cuori per distribuire la Grazia, dono che sostiene la nostra debolezza e allo stesso tempo, apri il cammino del Regno di Dio. E beati noi, se come Paolo, fedele all'ascolto del Signore, annunceremo nella nostra carne , il mistero della Bontà incommensurabile del Dio che è amore.
"Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte" (2Cor 12,7-10).
La mentalità corrente nella nostra società, costruisce tutto quanto sull'apparenza, sull'immagine. È sintomatico che il social più diffuso e più antico tra quelli in uso attualmente abbia un nome traducibile con “libro di facce” e potremmo benissimo tradurlo con “libro di facciata”, perché ciò che conta è l'immagine, l'apparenza, ciò che si vede. E ciò che è visibile agli occhi dev'essere all'apparenza efficiente, bello, gradevole, perfetto, senza difetti di sorta.
“All'apparenza”, per l'appunto, e non “nella sostanza”: ciò che appare, ciò che si vede o si vuol far vedere agli altri di noi stessi deve essere “piacevole, gradevole e perfetto”. Ciò che invece si è realmente, ciò che si è “nella sostanza”, ossia quello che c'è dentro la persona, può anche essere pieno di immoralità, di scorrettezze e di disonestà, ma questo poco conta, perché in apparenza nessuno lo vede e perché - ci si giustifica spesso così - “quello che uno fa o quello che è nel privato, è un problema suo”, l'importante è che non appaia pubblicamente. Quello che, invece, c'è nella sostanza e nel cuore di una persona non appare all'esterno, per cui non “influenza” l'opinione pubblica, non fa “marketing”. Essere efficienti significa “rendere” da un punto di vista economico: e tu puoi “rendere” solo se sei capace di vendere un'immagine di te che poco importa se non corrisponde alla realtà, l'importante è che appaia come bella ed efficiente.
Ma l'efficientismo, il culto dell'apparire perfetti, pieni di vitalità e di potenzialità elevate all'infinito, si scontra ed entra in profonda contraddizione con quella che è la realtà della vita umana. Il mito del “bello, perfetto ed efficiente” va costantemente a sbattere la testa contro il muro della quotidianità, fatta di limiti, di imperfezioni, di sofferenze, di malattie e - in definitiva - di morte. Sofferenze, malattie e morte che fanno male, soprattutto quando debilitano per lungo tempo come nel caso emblematico della donna del vangelo, affetta da dodici anni di emorragie, sia fisiche che economiche o quando colpiscono l'uomo nel fior fiore della sua efficienza e della sua giovane età, come nel caso della figlia di Giairo.
E il muro del male e della morte, entrato nel mondo - secondo quanto dice il libro della Sapienza nella prima lettura - a causa della disobbedienza dell'uomo che voleva pretendere di essere come Dio, è qualcosa contro il quale ci sbattono tutti, chi in maniera più serena, chi in maniera più drammatica: gente comune, gente nota e semplici uomini della strada, ricchi e poveri, signorotti e poveri diavoli.
Grazie a Dio, c'è chi alla vita crede e continua e credere non perché lotta contro la morte e la malattia in un disperato tentativo di essere sempre “più sano e più bello”, e quindi più “appetibile” agli occhi del mondo, ma perché sa che l'uomo ha una dimensione più profonda e più sincera del puro apparire, che va ben oltre la malattia e la morte e che addirittura riesce a sconfiggerle. Non le elimina affatto, ma contro di loro continua a giocare alla partita della vita e tra l'altro, vince sempre perché sa che c'è un Dio che può ridare vita anche solo imponendo le mani; perché sa che c'è un Dio che semplicemente lascia che a toccare il suo mantello sia un'umanità che cerca e ottiene vita; perché sa che c'è un Dio che è sollecito nei confronti dell'uomo e va in cerca di lui anche quando la società vorrebbe metterlo ai margini; perché sa che c'è un Dio che si ostina a credere nella vita anche quando “sarebbe meglio non disturbarlo più” perché non c'è più nulla da fare, anche quando tutti lo deridono e si prendono gioco di lui perché insiste a voler prendere per mano e far rialzare verso la vita chi apparentemente giace nell'ombra della morte.
Ma questo Dio esige dall'uomo fede in lui e nella vita, non vuole inutili perdite di tempo verso apparenti segni di efficienza e in forza della sua condivisione con il nostro dolore e i nostri quotidiani sacrifici, egli ci aiuta a capire che la vita vera non passa attraverso una frenetica ed esasperata processione ai centri di chirurgia estetica, alle palestre o davanti alle telecamere del reality di turno, né attraverso selfie fatti assumendo le facce e le posizioni più ammiccanti possibili, pur di “apparire”. La vita vera è quella che va alla ricerca di ciò che conta, alla ricerca del Maestro, a volte spingendo per farsi spazio tra la folla; è condividere come lui e insieme con lui le sofferenze umane; è riempirle di eternità, è ridare loro la speranza che spesso hanno perduto correndo dietro alla stupida moda dell'essere “visibile a ogni costo”.
Siamo di nuovo qui, dopo sole due settimane, a interrogarci con e su Dio: dopo il “Dove sei?” di Dio a Adamo, oggi siamo noi a chiedere qualcosa a Dio attraverso le due domande espresse dai discepoli nel brano che abbiamo ascoltato: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?” e “Chi è dunque costui?”. Sono le domande su cui la nostra fede spesso si interroga, molto più spesso di quanto crediamo: “Ma dov'è Dio? E chi è? E perché fa così?”, ovvero l'assenza-presenza di Dio nella nostra vita. Alla mente, mi tornano le parole del profeta Isaia: “Veramente tu sei un Dio misterioso”, quel “Deus absconditus” il cui pensiero ha affascinato spesso le ricerche dei grandi pensatori e filosofi. Penso in modo particolare ad Agostino d'Ippona, a Erasmo da Rotterdam, a Pascal, a Giovanni della Croce, più recentemente a David Maria Turoldo. Dio, nella nostra vita, spesso ci appare più come “mistero” che come “gloria”, più come “ombra” che come “luce”, più come interrogativo che come risposta. E ciò avviene, inspiegabilmente, quando abbiamo una certa familiarità con lui, quando ci sembra che tutto sommato stiamo facendo un percorso serio a contatto con la sua parola.
Qualche domanda a questo Dio ci verrebbe proprio da fargliela, come già avvenne al profeta Geremia: “Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa contendere con te, ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché la via degli empi prospera? Perché tutti i traditori sono tranquilli?”. Detto con parole nostre: come mai non fai niente per aiutare coloro che ti sono fedeli, mentre a coloro che di te se ne fregano altamente vanno tutte bene nella vita? Sono parole “eccessive” nei confronti di Dio? Se guardiamo alla prima lettura di oggi, direi proprio di no.
Giobbe era l'emblema dell'uomo retto e scrupoloso fino all'eccesso nel non peccare e nel fare in modo che anche i peccati dei suoi famigliari fossero perdonati da Dio. Eppure, Dio, attraverso un misterioso disegno lo mette alla prova con tutta una serie di disgrazie, personali e collettive, nemmeno di fronte alle quali, però, la sua fede vacilla. Fino a quando qualche “amico”, cerca di spiegare a Giobbe che Dio ragiona per mezzo di un concetto “retributivo” di giustizia, ossia che è talmente giusto che a ognuno dà secondo le sue opere. Se quindi a Giobbe sono successe solo disgrazie, è perché la sua era una bontà solo apparente: in realtà, è un peccatore incallito, per questo Dio lo condanna e lo castiga. È qui che Giobbe non resiste più, e allora insorge contro un Dio ingiusto, che si diverte a fargli del male. “Dove sei, Dio? E perché fai così? Non ti importa nulla di me? Perché dormi?”: sono le parole di Giobbe, ma sono anche le parole dei discepoli che pensavano di potersi sentire sicuri con Gesù sulla barca, per cui non riescono a darsi spiegazioni di fronte a un Dio che non solo non impedisce la tempesta, ma addirittura se la dorme beatamente, incurante del dramma di coloro che pensavano essere suoi amici e compagni di viaggio.
“Dove sei, Dio? E perché fai così con noi? Perché dormi, quando abbiamo bisogno di te? Perché lasci che la nostra vita vada alla deriva? E perché, soprattutto, non rispondi? Abbiamo bisogno della tua presenza, della tua essenza, non della tua assenza”: non sono forse, spesso, domande che pure noi ci facciamo e che sembrano non ricevere risposte soddisfacenti da Dio? Ma Dio risponde eccome, sia a Giobbe “in mezzo all'uragano” della vita, sia ai discepoli nella tempesta, ovvero proprio quando noi, uomini e donne di poca fede, non abbiamo orecchi attenti per ascoltarlo. E ci porge nuovamente la stessa domanda: “Dove sei tu? E perché hai paura, invece di avere fede?”. Ti sei forse dimenticato che io sono Dio, e ho il potere di mettere a tacere una tempesta sul mare, mentre tu no? E dove sei, quando io ti chiedo di prenderti le tue responsabilità di credente? Dove sei, ogni volta che io ho bisogno di te per essere annunciato ai fratelli? Dove sei, quando devi annunciare agli altri la misericordia che ho avuto con te? Dove sei tu, quando i tuoi fratelli muoiono di fame, quando i loro diritti sono calpestati, quando le porte si chiudono in faccia a chi ha bisogno di amore, quando devi costruire la pace e invece pensi solo a vendere armi di morte?
Siamo onesti: sono più le volte in cui noi siamo lontani da Dio di quelle in cui lui non si sente, e noi lì, pronti a rinfacciargli la sua assenza. Ma tutto ciò è così profondamente umano. Fa parte del gioco della vita e della fede vedere Dio come luce e ombra, come attività e sonno, come sole e tempesta. Troppo facile sarebbe, per noi, avere sempre un Dio di luce. Tu, Signore, rimani davvero, un Dio misterioso. Permettici anche solo, per un momento, di continuare il cammino con te, di salire nuovamente sulla barca per raggiungere altre rive anche se, venuta la sera, la tempesta quotidiana ci porterà a chiederti se davvero t'importa qualcosa di noi.
Quante cose misteriose accadono, nella vita. Come spiegare, ad esempio, l'amore che sboccia tra due persone diametralmente opposte tra di loro? Oppure, come possa un ragazzino con mille grilli per la testa, che fa il diavolo a quattro e che nemmeno il miglior educatore saprebbe gestire, a essere il primo della classe e ad avere il massimo rendimento scolastico? E come è possibile che da alcune periferie della nostra città di Napoli, dove si respira solo violenza e dove portare a casa sana e salva la pelle è un'impresa quotidiana, possano scaturire meravigliosi esempi di riscatto, di voglia di vivere, di tenerezza familiare, di amore verso l'uomo e il creato, di attenzione verso i più deboli? In tutti questi esempi, e in molti altri che ognuno di noi può ricordare per esperienza diretta, si nascondono semi di vita e di speranza che sono ben difficili da spiegare, a volte addirittura da narrare, ma che di certo sperimentiamo e avvertiamo in maniera evidente e decisa. E spesso, questi semi di vita e di speranza rimangono ben impressi nel cuore e nella vita di ognuno di noi che segna anche una svolta nella costruzione della nostra storia e della nostra identità. Pensiamo anche solo al momento in cui nasce una vocazione, una missione, una scelta di vita, a qualunque realtà ci si senta chiamati: difficilmente la puoi dire, eppure la senti dentro e poi la segui. Ecco perché Gesù parlava esprimendo misteri “detti e non detti”, narrati e non del tutto espressi, evidenti ma anche nascosti, ossia “in parabole”: perché in realtà, Dio stesso è così. Dio si rivela proprio nei misteri di cose dette e non dette, di cose espresse e non del tutto comprese, di fatti della storia che spesso noi non comprendiamo ma nei quali poi ognuno di noi è chiamato a inserirsi con la sua personalissima storia, che però alla fine rimane sempre e comunque condotta da Dio. Come questo avvenga, nessuno di noi bene lo sa. Come l'agricoltore che semina un seme nella terra, ed esso cresce senza che egli sappia per quale motivo o con quali tempi e modalità ciò avvenga, e soprattutto indipendentemente da quanto egli sia in grado di fare.
Dalla parabola del seme che cresce da solo portiamo a casa l'insegnamento di un mistero grande di Dio, e cioè che Dio realizza sempre e comunque il suo regno, nonostante tutto. Nonostante buona parte del seme che egli semina cada in tipi di terreno che fanno ben poco sperare. Pensiamo alla più famosa parabola, quella del seminatore, che nel Vangelo di Marco viene poco prima di quelle che abbiamo letto: il seme è gettato a larghe mani, dappertutto, quasi buttato via, eppure cresce, e come faccia, nemmeno il contadino lo sa, e comunque porta frutto abbondante. E nemmeno si sa come un microscopico seme, come quello di senape, poco più grande di un filo di polvere, possa poi crescere e diventare un albero che dà nido e riparo agli uccelli del cielo.
Così come nessuno sa, a parte Dio, come le cose più insignificanti agli occhi degli uomini possano diventare talmente grandi da offrire a ogni uomo segni evidenti dell'amore di Dio. Basta pensare da dove saltano fuori i santi: non tutti sono grandi maestri e dottori, all'interno della Chiesa! Una piccola contadina di uno sperduto villaggio dei Pirenei, ad esempio, diventa ambasciatrice dell'amore misericordioso di Maria per tutti i malati e i sofferenti; una minuta e gracile suora albanese si fa piccola matita nelle mani di Dio per scrivere le più belle storie di carità fra le strade di Calcutta; il figlio di una povera famiglia di contadini di uno sconosciuto paesino della bergamasca, tanto sconosciuto da essere collocato “sotto il monte”, rivoluziona la Chiesa e il mondo invitando a dare una carezza ai bambini e indicendo il più sconvolgente dei Concili che la Chiesa abbia vissuto.
Ma questo era già successo molti anni prima, quando dodici umili pescatori, falegnami, disonesti esattori delle tasse e mezzi terroristi di Galilea diventano annunciatori delle grandi opere di Dio a ogni nazione e in ogni lingua per colpa di Dio stesso, che in un villaggio insignificante della Giudea, chiamato Betlemme, dove oggi nessuno sceglierebbe di costruirsi una casa, scelse di far nascere suo Figlio, forse “la più vera parabola pronunciata da Dio”, come amava dire papa Benedetto XVI. E come mai Dio fa queste cose? Come mai preferisce una parabola a un discorso ufficiale, un silenzio eloquente a un'affermazione dottrinale, un insignificante gesto a un'azione roboante?
Non lo sappiamo, e anche questo fa parte delle cose di Dio e dei suoi misteri. Non possiamo pretendere di avere le ricette per le grandi questioni della vita, visto che non abbiamo neppure le ricette per i molti piccoli e grandi problemi che ci troviamo a vivere nel quotidiano; ma se avessimo anche solo la capacità di lasciarci stupire e meravigliare dai misteri che Dio attua ogni giorno nella vita delle persone, impareremmo senz'altro a giudicare di meno, a criticare di meno, ad avere meno pregiudizi, a non condannare affatto chi risponde alle varie situazioni della vita con modalità che a noi sembrano strane, insignificanti, misteriose o addirittura prive di senso, eppure porta frutto. Dio, allora come oggi, continua a parlarci in parabole; e difficilmente cambierà idea.