Lungo questa quinta settimana di Pasqua abbiamo sentito dal Signore un richiamo continuo a rimanere nel Suo amore. La Liturgia oggi ci fa capire ancora che rimanere nel suo amore è possibile solo per opera dello Spirito Santo. Ecco allora dove deve fondarsi la nostra preghiera e le intenzioni che ci spingono a pregare e annunciare: lo Spirito Santo che è Amore. E’ Lui che ci aiuta a discernere il modo di amare secondo Dio e per la gloria di Dio, perché non è detto che basta credere di amare; ci sono infatti molti modi di amare: dalla semplice ricerca del piacere all’avidità o all’amore più disinteressato; dall’amore più materiale a quello più spirituale; «dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio, all’amore di Dio fino al disprezzo di sé» (S. Agostino).

Ecco perché già san Giovanni ha cercato di esprimere le caratteristiche proprie dell’amore cristiano, partendo dalla convinzione che Dio stesso ci ama per primo: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (cfr. 1Gv 4,7-10). Dunque è in Gesù Crocifisso e Risorto per noi la manifestazione concreta e vivente dell’amore di Dio che attraversa la storia di ogni uomo e donna, chiunque sia e da dove sia: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola.» (cfr. At 10, 25-48).

Abbiamo dunque, davanti a noi il modello dell’amore: Cristo Gesù nostro Signore. Abbiamo per noi, Colui che ci forma a modello di Cristo: Lo Spirito del Padre, che è Santo, che ci fa vedere il volto nascosto nelle cose, che ci fa andare verso chi è nel bisogno, che ci fa amare fino a morire o desiderare morire di amore e per amore. Questo è il comandamento nuovo raccomandato e sigillato dal Crocifisso Risorto, abbracciato e testimoniato dalla prima comunità cristiana e lasciato come eredità e missione ad ogni discepolo battezzato, che nonostante tutto, crede  che la sua vita nascosta in Cristo, vissuta nell’amore e per amore diventa, ogni giorno un’eucaristia quotidiana.

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri
» (Gv 15,9-17).

                                                                                                                              sr Maria Aparecida

Da sempre, la quarta domenica del Tempo di Pasqua è dedicata alla figura di Cristo Buon Pastore, in quanto la Liturgia ci presenta la lettura di un breve brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù si rivolge prima ai suoi discepoli e poi a un gruppo di Giudei suoi oppositori con una parabola, un po' diversa dalle solite come “insolito” è il Vangelo di Giovanni. Gesù si presenta come il “Buon Pastore”, richiamando una figura cara all'Antico Testamento e in modo particolare alla tradizione profetica, nella quale il pastore si identifica non solo con i capi d'Israele, ma anche e soprattutto con la figura paterna e amorevole di Dio. Nel solco della tradizione profetica Gesù presenta l'ideale della figura del pastore, ovvero del responsabile di una comunità, il quale dev'essere - a imitazione della bontà di Dio - pronto a tutto per le sue pecore, addirittura a “dare la vita” per esse.

            In questo senso, il pastore si distingue dal “mercenario”: questo termine deve la propria origine all'ambiente militare e si riferisce al soldato che combatte una guerra non per amore della patria, ma per amore del denaro e quindi, si offre all'esercito che meglio lo paga. Applicato al mondo agropastorale, si tratta di un qualsiasi operaio che ha come unico scopo quello di guadagnare il più possibile, magari con il minimo sforzo, per cui si guarda bene dal metterci passione in ciò che fa. Al punto che, in una situazione di pericolo o d'insicurezza, una volta assicuratosi il proprio stipendio, se la fila a gambe levate, lasciando al loro destino le pecore che gli sono state affidate, proprio perché non sono sue. Tant'è, un altro padrone lo troverà comunque, e anche da quello cercherà di lucrare il più possibile.

            È proprio su questa contrapposizione tra “appassionato” e “mestierante” che Gesù fa perno per far comprendere ai propri uditori quale sia, nell'esercizio della responsabilità, l'elemento discriminante tra i due, ovvero l'Amore. Chi fa le cose per guadagnare, non necessariamente fa una cosa illecita: non fa altro che entrare nella logica del mercato. A una prestazione corrisponde un salario, al di là della passione che ci si mette nel farlo perché la passione non ha prezzo perché l'Amore non ha prezzo e con esso, non ha prezzo la bellezza dell'opera e del lavoro realizzati. Una cosa fatta per dovere o secondo logiche di mercato, ha un valore e come tale va pagata, anche per un criterio di giustizia sociale; ma la stessa cosa fatta con amore ha un plusvalore a cui nessun datore di lavoro riconoscerà un bonus, eppure esso rappresenta il valore aggiunto dell'opera realizzata.

            Quanto siamo lontani dall'aver compreso che a nulla vale la competenza delle scienze, dell'esperienza e dell'autorità, se non siamo testimoni autorevoli e credibili dell'amore che da Dio abbiamo ricevuto e per suo comando siamo tenuti a donare! La miglior azione pastorale rimane quella della testimonianza e l'unica testimonianza credibile è quella di chi sa amare perché - come diceva il grande teologo Von Balthasar oltre sessant'anni fa - “solo l'amore è credibile”.

                                                                                                             don Franco Bartolino

 

 

Il testo di Luca, che leggiamo in questa domenica, ci racconta di tanti interrogativi: nonostante le notizie che arrivano, i discepoli sono descritti nell’atto di parlare tra loro, di discutere e ragionare, non vengono presentati come credenti ideali.

Tutti noi abbiamo bisogno di fare un cammino per arrivare a credere in Gesù, che non ci mette al riparo dai dubbi, ma che ci porta a vivere un’esperienza di incontro con il Signore, il quale non si rassegna davanti alla nostra incredulità.

Il Signore entra nei nostri ragionamenti e nelle nostre perplessità: si mette in mezzo, riprende il suo posto. Spesso i dubbi e le paure espropriano Gesù dal centro del nostro cuore.       Ci sono altre preoccupazioni che prendono il sopravvento. Ma anche in questo caso, vediamo come per gli stessi discepoli non sia immediato riconoscere Gesù, proprio perché quando siamo presi dall’angoscia e dalla tristezza, Gesù stesso ci sembra un fantasma, una presenza inefficace, che può colpire la nostra fantasia, ma non è reale. Probabilmente anche per noi Gesù è diventato un ricordo, un’immagine, presente ma inefficace. Pensiamo che il Signore sia solo il frutto della speranza: vorremmo che fosse più presente nella nostra vita.

Il cuore dei discepoli è attraversato da molteplici sentimenti. Il testo di Luca dice che sono sconvolti, pieni di paura, turbati, dubbiosi, provano gioia e stupore. Si tratta di sentimenti anche molto diversi tra loro, che creano una tempesta affettiva.

         Anche il nostro cuore è spesso attraversato da sentimenti diversi nei confronti di Dio, Egli sa che abbiamo bisogno di sentire la sua presenza e di essere aiutati a riconoscerlo. Anche con i discepoli fa così, si fa riconoscere e lo fa attraverso due modalità molto significative: le ferite e la condivisione.

Gesù mostra le sue ferite perché raccontano l’amore che ha avuto per loro. Quelle ferite, come anche le nostre, non sono inutili. Sono il segno di una storia d’amore. Gesù si fa riconoscere come colui che ha sofferto per noi.

Il secondo gesto è la condivisione: mangiare insieme. È il segno della familiarità, ma soprattutto è un gesto che rimanda al Cenacolo, al luogo dove abbiamo vissuto insieme e al luogo in cui Egli ha consegnato il suo corpo e il suo sangue.

Quei due segni gettano luce sulla storia, aprono la mente, invitano a rileggere quello che è accaduto. Gesù invita i discepoli a ricordare le parole che hanno ascoltato, il cammino che hanno percorso insieme.

Soprattutto i discepoli di ogni tempo sono invitati a rileggere la passione di Gesù, la sua morte in croce e la sua risurrezione.

Abbiamo bisogno di tempo, ma solo attraverso questo cammino possiamo diventare testimoni. E questo è il compito che Gesù vuole affidarci: raccontare quello che abbiamo vissuto.

 

                                                                                               sr Annafranca Romano

E’ la Domenica della Misericordia e la Liturgia ci inserisce nell’esperienza della Fede attraverso il dubbio di Tommaso, il gemello di quella parte di noi che non ha paura di mettere in questione le proprie paure e delusioni; quella parte di noi che ancora non ha scoperto la bellezza dello stare insieme, come comunità riunita nella speranza, fieri soltanto della Parola del Signore, nella fedeltà alle sue promesse.

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20, 19-31).

E sì come quella parte di noi gemella di Tommaso, accompagna il corso della Storia, ecco che pazientemente, il Risorto si presenta oggi in mezzo ai suoi, sua Chiesa, nella Liturgia Eucaristica, come ieri alla piccola comunità degli apostoli, riunita, spaventata, ma fedele. 

In questa Domenica della misericordia quindi, ci vieni spontaneo alzare gli occhi e la voce, per dire grazie. Grazie a te Tommaso, perché dal tuo dubbio abbiamo ricevuto la beatitudine dei credenti. Grazie a te la nostra fede si ferma ancora di più nella Parola del Signore, nella Sua Presenza che dona sempre pace, nel suo perdono, sempre rivestito di misericordia: «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Grazie a te, Chiesa, che sulla scia degli apostoli continui a incontrarsi per ascoltare e spezzare il pane che è Gesù, unica ricchezza che hai, e senza paura ne condividi con tutti gli uomini della Terra, nella speranza di quel giorno, in cui tutti saremmo una cosa sola con il Padre, per Cristo, nello Spirito Santo.

«Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità».
(1Gv 5,1-6)

Grazie a te, Gesù, Crocifisso Risorto, che con divina pazienza vieni sempre incontro alle nostre debolezze fisiche, morale, spirituali, fraterne… Sei Tu il nostro centro propulsore, sei Tu la calamita che ci mantieni uniti a Te, sei Tu la fonte della nostra gioia e della nostra pace. A Te, Cristo Gesù, il Vivente, affidiamo la nostra e tutta l’Umanità: vinci le nostre barriere, perdona i nostri numerosi peccati personale e sociale, mostraci le tue piaghe e permette che da esse possiamo attingere la freschezza della Tua salvezza; rinnovaci con il soffio del Tuo Spirito e rivestici con la tua pace. Costituiscici testimoni della vera gioia, la gioia di avere Te, di essere con te, di vivere in Te e morire come Te. Amen.

                                                                                                                    suor Maria Aparecida Da Silva

Siamo arrivati finalmente al cuore del cristianesimo: La passione e morte: del Dio vivente! Quaranta giorni fa siamo partiti dal deserto e con il Maestro ci siamo lasciati guidare sul Tabor per ammirare la sua bellezza, alla spianata del tempio, nel colloquio con Nicodemo e in compagnia dei greci che chiedevano a Filippo di poter vedere Gesù. Entriamo nella settimana, definita santa anche se a me piace chiamarla “Settimana Autentica”, perché è il centro della vita di un cristiano e faremo compagnia a Gesù minuto dopo minuto nelle sue ultime ore anche se la nostra vita continuerà a trascorrere regolarmente. In questa settimana, immergiamoci in quest'atmosfera fatta di silenzio, paura, dolore e tradimenti. Saranno i giorni dell'angoscia del Maestro di Nazareth: gli uomini capiranno finalmente? Oppure il Figlio di Dio resterà tra i tanti crocifissi anonimi della storia? Allora fermiamoci e ammiriamo lo spettacolo della croce come lo chiama Luca, lo spettacolo dell'amore.

            In questa domenica è raccontata una contraddizione. La folla che accoglie Gesù in maniera entusiasta, che grida “Osanna al figlio di Davide” impugnando dei ramoscelli d'ulivo è la stessa che qualche giorno dopo griderà “crocifiggilo”! Perché oggi raccontiamo questa contraddizione? Perché la Passione è animata da contraddizioni. Racconteremo di Pietro che dice di essere disposto a dare la vita per il Signore, ma crollerà davanti alla domanda di una serva. I discepoli sono stati con lui notte e giorno ma nel momento più doloroso del Maestro scappano. Per non parlare di Giuda.

            Quando leggiamo i racconti della Passione non ci sono buoni e cattivi, ci siamo noi, con le nostre luci e le nostre ombre. Siamo noi i discepoli che scegliamo di stare dalla sua parte ma che a volte, sul più bello, scappiamo, tradiamo e magari d'accordo con il Pilato di turno, crocifiggiamo Gesù fuori da Gerusalemme, cioè lo mettiamo fuori dalla nostra esistenza. Solo se abbracciamo questa contraddizione possiamo vivere bene la Pasqua, perché la celebrazione della Settimana Autentica è la celebrazione di un grande fallimento, diventata poi una grande vittoria e se accettiamo di essere contraddittori falliti, allora possiamo dire da che parte vogliamo stare.

            Ci siamo accostati al racconto di Marco che conserva praticamente alla lettera il racconto primitivo della Passione, tanto amato dalla prima comunità di Gerusalemme. Marco, a differenza degli altri evangelisti, mette in risalto le reazioni molto umane di Gesù di fronte alla morte che lo aspetta e lo presenta spaventato, terrorizzato. Nel racconto di Marco, Gesù non dice una parola quando Giuda lo bacia e non reagisce quando uno dei presenti mette mano alla spada. Alle autorità religiose che gli chiedono se egli sia il Messia e a Pilato che vuole sapere se è re, risponde semplicemente: “Sì, lo sono”. Poi basta. Insomma, Marco ci presenta Gesù che accetta passivamente quanto gli sta accadendo e, alla fine, conclude semplicemente dicendo: “Si compiano dunque le Scritture!”

            In questo spettacolo, due personaggi sono descritti solo da Marco. Il primo è quel giovane presente all'arresto, che “lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Perché inserire questo dettaglio? Ma soprattutto chi è quel ragazzo? La tradizione lo ha identificato con lo stesso Marco, ma il dettaglio del lenzuolo (in greco “sindone”) è carico di profezia. Che cosa lascia questo giovane nelle mani delle guardie? La sindone! È l'immagine di ciò che sta accadendo a Gesù. Hanno catturato Gesù, ma cosa lascerà lui nelle mani delle guardie? Un lenzuolo non la sua persona. Il secondo personaggio è il Centurione. Tutto il Vangelo di Marco ruota attorno ad una domanda: chi è Gesù? Ed ecco finalmente la risposta! Ma la professione di fede è sulle labbra di un pagano, non su quelle di un discepolo: “davvero costui era figlio di Dio”.

            Allora ammiriamo questo spettacolo dandoci del tempo. In Quaresima siamo stati noi i protagonisti mentre in questa Settimana il protagonista è Lui! In Quaresima ci siamo chiesti cosa potevamo fare per Dio, in questa Settimana contempliamo attoniti cosa Dio ha fatto per noi!  Se a questa Settimana ci avviciniamo per “capire”, ci scivolerà addosso inutilmente; se invece desideriamo che incida sulla nostra esistenza, bisogna permettere che scriva sul nostro corpo perché siamo stati amati con il corpo e con il corpo dobbiamo amare. Ciascuno di noi, solo a partire dai propri fallimenti, può sperimentare la gioia della vittoria della vita sulla morte.

                                                                                                                                        don Franco Bartolino

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Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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