La consuetudine cristiana della correzione fraterna ha le sue radici nel Vangelo. È un mezzo importantissimo per raggiungere la santità e non andare fuori strada. In questo brano, Gesù insegna ai suoi discepoli come devono praticarla tra di loro e ci fornisce il vademecum della carità, perché ci dice con che gradualità bisogna recuperare chi sbaglia.

I passi sono almeno tre: “Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano”.

Ma che cosa ci autorizza ad intervenire nella vita di una persona? Nient’altro che la parola fratello, percepire l’altro come fratello o sorella, non il credersi i raddrizzatori dei torti del mondo, ciò che ci autorizza è la custodia, è l’I care di don Milani: mi stai a cuore e mi prendo cura. Solo chi ama, sa prendersi cura.

Solitamente, invece, quando ci accorgiamo che qualcuno sbaglia, l’ultimo a saperlo è proprio chi ha sbagliato perché la tentazione di raccontare agli altri, di consegnarlo al giudizio di tutti è sempre molto forte. La carità vuole, invece, che il primo passo sia affrontare a viso scoperto le persone, con una discrezione immensa. E solo se questo fallisce aggiungere con molta umiltà l’aiuto di qualcun altro. E se ancora persiste, chiamare le cose per nome ad alta voce, e se ancora non è cambiato nulla si ha il diritto di prenderne la distanza.

Ma è una distanza che nasce dalla sofferenza, non dall’indifferenza, e se si crea un’occasione per colmarla, dobbiamo saper fare il primo passo. Altrimenti da cosa si dovrebbe evincere che noi siamo cristiani?

“In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.

È così grande la potenza di una fraternità che la sua efficacia può essere messa alla prova con la preghiera. Quando una richiesta nasce dalla preghiera di due o tre persone, Cristo accorda  ciò che si domanda, perché obbedisce sempre alla logica dell’amore. Per questo, per migliorare la nostra preghiera, dovremmo migliorare la qualità delle nostre relazioni. Più il bene è autentico più la nostra preghiera è efficace.

                                                                                                 sr Annafranca Romano

Testimone della Croce, messaggeri della Risurrezione: ecco il fascino misterioso della realtà cristiana nel mondo, di cui già parlava Geremia nel dramma di una fede e missione continuamente messa alla prova e della quale non poteva farne a meno: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,7-9).

Ma Geremia altro non è che il cuore umano, che non trova pace se non nel compimento della volontà di Dio. Prova è l’inquietudine di ogni essere umano che va alla ricerca di qualcosa, a qualsiasi costo, per soddisfare i propri desideri… in cerca di felicità.

Ecco allora che la Chiesa diventa per tutti, alla sequela del suo Signore, un messaggio di vita e di speranza; una via e una casa dove il cuore umano trova sollievo, ma anche senso, non fuggendo alla realtà, ma abbracciandola; non camuffando se stesso, ma accogliendo le contraddizioni nascoste nell’essere e risignificandone in Cristo Signore. Pietro, nella liturgia odierna ne è specchio, guardando lui ci ritroviamo anche noi: quante volte ci ribelliamo all’apparente crudeltà della croce: «Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (cfr. Mt 16,21-27); da pietra solida sulla quale Gesù aveva appena detto che costruirebbe la sua chiesa, pochi secondi dopo diventa pietra di inciampo; da “Beato te Simone, perché il Padre mio ti ha rivelato…”, subito si passa a «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Come possiamo uscire da questo bivio, sempre presente nel nostro cuore?

Solo dietro Gesù, seguendo Lui, che abbraccia la Croce e attraversa la morte con le sue potenze e contraddizioni, offrendo la Sua Luce che vince ogni tenebra, offrendo la Sua vita, che vince ogni potere di morte.

Solo dietro Lui la nostra vita, apparentemente perduta per Lui, si traduce in quell’offerta gradita a Dio, fascino per un mondo che ancora va dietro le proprie illusioni. «Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.
Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).

                                                                                                                  suor Maria Aparecida Da Silva

Ci sono persone più propensi al dialogo e chi invece ritiene sia più giusto essere intransigenti nella propria fermezza. Atteggiamento che può dare fastidio, ma bisogna accettarlo, soprattutto se la persona in questione offre motivazioni e argomentazioni, al di là della condivisione. Diventa però un po' più difficile da accettare, quando la persona in questione è Dio perché da lui tutto ti aspetteresti meno che incontrare una persona sorda alle richieste delle persone. Se non ci ascolta lui, che è buono e ci si rivela come un padre che ha cura di tutti i suoi figli, chi vuoi che ci ascolti? Eppure, questa è la percezione che spesso abbiamo di lui: che non ci ascolti, che quando lo invochiamo si giri dall'altra parte e quanto più insistiamo, tanto meno avvertiamo cenni di risposta. Ci viene addirittura da pensare che lo faccia di proposito e magari, siamo anche persone piene di fede, alle quali dovrebbe dare ascolto più che ad altre che nemmeno sanno chi sia Dio!

            Credo che questa sia stata anche la percezione che hanno avuto di lui i discepoli di Gesù, quando - di fronte alle grida di una donna cananea che lo supplicava di guarire sua figlia indemoniata - si accorsero che non le rivolgeva neppure mezza parola. E alla richiesta dei discepoli di ascoltarla, quantomeno perché non continuasse a inseguirli gridando e facendo fare loro una brutta figura, Gesù risponde loro dando delle argomentazioni: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele”. In altre parole, quello che spesso diciamo anche noi, forse con tutt'altro intento: “Che cosa vuole questa persona? È uno straniero, non è del nostro paese, non è della nostra parrocchia, dobbiamo pensare prima ai nostri!”.

            Noi, però, con queste affermazioni ci giustifichiamo e agiamo di conseguenza, negando ogni tipo di aiuto, ritenendo di essere nel giusto. Invece Gesù non dà nulla per concluso, e si lascia avvicinare da questa donna, alla quale non dà certo una risposta confortante: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Una risposta molto nazionalista, dato che “cani” era l'appellativo sprezzante che gli ebrei davano ai pagani.

            Il coraggio di questa donna, però, va oltre il nazionalismo di Gesù, e lo sfida sullo stesso piano: “So di essere un cane, ma mi basta sfamarmi delle briciole che cadono dalla vostra mensa, e con queste briciole sfamare me e la mia famiglia”. Della serie: “So di non meritarmi nulla, ma mi accontento di quello che avanza, pur di salvare mia figlia”. La conclusione di Gesù la conosciamo: loda la fede di questa donna ed esaudisce la sua richiesta.

            Perché Gesù viene meno ai propri principi intransigenti e, alla fine, ascolta la supplica di questa donna definendola grande nella sua fede? Forse perché la sua fede era davvero grande? Può darsi. Ma io credo che ciò sia avvenuto anche per un altro motivo, non secondario: ovvero, perché si trattava di una donna, e in modo particolare di una madre.

            La convinzione che anche Dio ragiona con il cuore, e in particolare con il cuore di una donna, di una madre, che per amore ai propri figli è disposta a tutto. E Dio accetta la sfida, anzi: accetta addirittura di perderla, perché anch'egli sente compassione per noi con la stessa compassione con cui una madre ama i propri figli. E nel nome di questa compassione, ascolta le nostre suppliche.

            Dio, allora, non è sordo alle nostre richieste: solamente, vuole capire e farci capire come chiediamo a lui ciò di cui abbiamo bisogno. Se quello che chiediamo lo chiediamo per comodo egoismo, per stare bene noi, per sentirci a posto, o magari per non fare la fatica di ottenerlo con un po' di sforzo personale, allora non possiamo avere la pretesa che Dio ci ascolti, neppure se lo chiediamo con insistenza.

            Ma quando la nostra preghiera è mossa dall'amore, come l'amore di questa madre per la propria figlia, allora entra subito in sintonia con Dio, perché Dio ragiona con l'amore. E ciò che l'amore chiede è capace di smuovere le montagne; anzi, direi di più, è capace anche di far cambiare idea a Dio, perché quando sente che c'è amore, Dio risponde, al di là di chi sia il richiedente.

                                                                                                              don Franco Bartolino

La chiave di lettura della pagina di vangelo che la liturgia di oggi ci presenta è nella colletta, la preghiera che introduce le letture: «Onnipotente Signore, che domini tutto il creato, rafforza la nostra fede e fa’ che ti riconosciamo presente in ogni avvenimento della vita e della storia, per affrontare serenamente ogni prova e camminare con Cristo verso la tua pace».

    «In ogni avvenimento». Come in questa traversata del lago, nel buio della notte, col vento contrario e le onde che scuotono la barca. Probabilmente i discepoli hanno paura ed essa esplode in un grido quando un’ombra si avvicina, nelle tenebre, sul mare agitato.

Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù spegne tutti gli entusiasmi, costringendo i discepoli a salire sulla barca per precederlo sull’altra riva, «finché non avesse congedato la folla».     Poi si allontana da tutti e si mette a pregare, per conservare l’unione con il Padre e rimanere fedele alla logica dell’Incarnazione. I discepoli, a malincuore, obbediscono al comando e si trovano ben presto nel cuore di una vera e propria tempesta: la barca «era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario».

 La primitiva comunità cristiana ha conservato il ricordo di questa angosciosa notte perché in essa ha riconosciuto un’esperienza che inevitabilmente vive ogni figlio di Dio. Per fortuna il Signore «sul finire della notte» non ha paura di venirci incontro, «camminando sul mare», cioè sull’oceano delle nostre paure. Tuttavia, il suo arrivo non estingue immediatamente la nostra angoscia.

       La presenza di Dio nella nostra vita è discreta, lieve; solo la fede la riconosce. Come già aveva capito il profeta Elia, Dio si rende sensibile come un vento leggero, che accarezza e scompiglia i capelli, come una brezza che tocca delicatamente il contorno della nostra vita.

Facciamo fatica a credere che Dio sia vicino e presente nella nostra vita in una forma così tenue. Per questo sentiamo sempre il bisogno di metterlo alla prova chiedendo ulteriori segni per riuscire a credere: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque» (14,28).  

            Provando a camminare sulle acque Pietro scopre che se guarda la furia del vento è invaso dalla paura e affonda sotto il peso delle sue angosce, ma se afferra la mano del Signore, il vento si placa. La lezione di Gesù è chiara. La fede non è facile, poiché richiede totale abbandono in Dio, una fiducia piena e incondizionata, che faccia leva sul valore salvifico della sua redenzione.                                                           

                                                                                                                 sr Annafranca Romano

«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (cfr. Mt 17,1-9).

Forse è proprio questa la richiesta che questa Festa di oggi ci invita a chiedere a Dio: la gioia di essere alla Sua presenza, di contemplare la Storia e la “nostra” storia per gustare la fedeltà di Dio, che inoltre sempre si presenta come il Dio dei vivi (Mosè ed Elia), il Dio che accompagna la vita e la storia (passato, presente e futuro), coinvolgendo tutto e tutti nell’Economia della salvezza: «mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano» (cfr. Dn 7,9-10.13-14).

 Ma non si tratta solo di esseri meravigliosi, visioni straordinarie, Lui coinvolge il nostro quotidiano, così come siamo: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro… Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

Forse dobbiamo imparare la lezione che il Vangelo oggi ci dà, perché solo se guardiamo la Storia “nella Presenza del Signore e a partire dalla Sua Vita” riusciremo a contemplare la luminosità della nostra esistenza, personale e collettiva, la sicurezza che ci dona quando siamo coperti con la Sua ombra, la certezza che siamo coinvolti da sempre e per sempre in quella figliolanza divina e quindi, siamo oggetti dell’amore infinito ed eterno del Padre.

Esperienza solo da alcuni privilegiati? No, ma chiamata per tutti. Ecco perché “non è bello ‘rimanere lassù’, ma scendere, assumendo la Croce di Gesù e le nostre, per coinvolgere anche gli altri nella stessa esperienza di essere amati, chiamati a salire sul monte della Trasfigurazione, per ritrovarci come uomini nuovi, donne nuove, uomini e donne della Parola ascoltata, contemplata, condivisa.

«Carissimi, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l'amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l'abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte.
E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino
» (2Pt 1,16-19).

                                                                                                     suor Maria Aparecida Da Silva

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Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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