Il giorno nuovo della Pasqua inonda di luce la nostra storia e la proietta nell’eternità. Insieme, come comunità di redenti, siamo testimoni della vittoria del Salvatore, che distrugge per sempre la morte e illumina il buio delle nostre notti.

La morte e il male di fronte a Lui soccombono: è questo che celebriamo nel giorno di Pasqua, una festa che dura 50 giorni, a dire la pienezza del dono della Vita che il Padre ha elargito agli albori della Creazione e ha rinnovato nella storia del popolo di Israele, nonostante le innumerevoli infedeltà.

Egli è fedele per sempre, ha compiuto per noi «una salvezza potente» «nella pienezza dei tempi» attraverso il Mistero del Figlio, incarnato, morto e risorto, e conferma nella storia, fino alla fine del mondo, la sua Salvezza per l’azione potente dello Spirito.

«Questo è il giorno che ha fatto il Signore», la Pasqua è il giorno senza tramonto, cui ciascuno di noi è chiamato perché Cristo è risorto dai morti! Con questo giorno nuovo, che non ha fine, «la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Lui, che è la nostra Vita, anche noi saremo manifestati con Lui nella Gloria».

 Non c’è spazio per la tristezza e la paura nel giorno in cui la Vita vince: gli angeli, come negli annunci del Natale, invitano le donne a «non temere; ciascuno in Cristo riposa, sicuro di essere vivo in Lui: chiunque crede in Lui, anche se muore vivrà. Questa è la fede della Chiesa, che si fonda sulla certezza della Risurrezione: un fatto dentro la storia, un evento che ha cambiato la storia.

Tutti si affrettano la mattina di Pasqua: le donne «lasciano in fretta il sepolcro con timore e gioia grande» e «corrono a dare l’annuncio ai discepoli»: esse per prime, nella corsa, incontrano Gesù; anche «Pietro e l’altro discepolo, quello che Gesù amava, corrono insieme», raggiunti e mossi dalla Parola salvifica del Padre, fattasi carne per la fede di una Donna e affidata fino alla fine della storia alla fede e alla testimonianza di ogni donna e di ogni uomo, fortificati sempre dalla fede di Pietro: è lui che entra nel sepolcro per primo, ed è per la fede di lui che anche l’altro discepolo «entra, vede e crede».

 Corriamo anche noi! Il Signore risorto rinnova i nostri passi e rafforza la nostra testimonianza. Egli ci invita a tornare «in Galilea», dove tutto è cominciato, e a rivivere la gioia che viene solo dal seguire Lui.

Tocca a noi adesso essere i destinatari e i portavoce non di un fatto storico, ma del nostro coinvolgimento, di cosa è successo nella nostra vita e quale esperienza di fede consegniamo a chi seguirà. 

Oggi è Pasqua. Se la celebriamo vuol dire che siamo nel posto giusto al momento giusto; ciò deve ricordarci che il cristiano è chiamato a vivere la Pasqua tutti i giorni. La resurrezione ci rende nuove creature, imprime slancio alla nostra capacità di amare.                 

 La resurrezione è fonte di gioia, va annunciata e vissuta: la strada da percorrere e i segni da lasciare, già li conosciamo, sono dentro di noi.

 

                                                                                               sr Annafranca Romano

«Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli» (Is 50,4).

Abbiamo aperto i nostri orecchi lungo questi quaranta giorni, passando dalle Cenere alla Settimana Santa. Il Signore stesso ci ha guidati attraverso incontri importanti, offrendoci la possibilità di un cammino con Lui per diventare uomini e donne nuovi, semi di una nuova umanità.

Entriamo ora nella Città Santa: il Cuore di un Dio che si spezza d’amore. Entriamo non più nel Tempio dei sacrifici ma nel Tempo della Grande Liturgia nella quale il Signore, offrendo Se stesso ha reso sacro, santo ogni tempo, ogni luogo dove si pronuncia e annuncia il Suo nome, ogni cuore che lo accoglie nella fede e nell’amore. Matteo ci ricorda che anche per il nostro tempo si compie la profezia di Malachia: «Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: "Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un'asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma"» (Mt 21,4-5).

Dall’inizio alla fine della sua vita il Signore si è mostrato così: povero, umile, semplice, trasparente, indifeso… perché è esattamente questa l’identità di Dio e l’immagine nella quale siamo stati creati, per questo Gesù non ha preso in considerazione la Sua uguaglianza con Dio (cfr. Fil 2,6-11), accettando di riscattarci dalla trappola del potere, dell’orgoglio e dell’egoismo, facendosi Lui stesso Cammino di ritorno al Cuore del Padre, nostra Vita e Verità.

Seguiamo dunque Gesù, che entra deciso all’incontro della morte per trarre per tutti, la vita. Alziamo non più rami di ulivo o di palme, ma il palmo delle nostre mani con i frutti delle nostre opere di bene, di perdono e riconciliazione, del nostro impegno per la pace e del nostro amore sostenuto dalla fede e dalla speranza. Eleviamo il nostro inno di ringraziamento e di lode a Colui che ci dona la pace e salva la vita senza uccidere nessuno, ma offrendo se stesso, e impariamo da Lui a fare lo stesso mettendoci nel mondo come servi dell’Umanità.

«I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l'asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».
Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea
» (Mt 21, 6-11)

Questa settimana sarà decisiva anche per noi se riusciremo a fare tesoro delle sue Parole, se imprimeremo nella mente e nel cuore i suoi insegnamenti fati di esempi concreti, di silenzio e umiltà. Corriamo dunque, come i discepoli, a preparare la stanza del nostro cuore e della nostra casa, per farla diventare cenacolo della presenza eucaristica del Signore e vivere in continua azione di grazia al Suo amore fattosi Pane caldo, Cibo gustoso, Vino Buono, Mensa fraterna con sapore di Vita Eterna.

 

                                                                                                                         suor Maria Aparecida Da Silva

Troviamo oggi una delle pagine più inquietanti del Vangelo, la pagina conclusiva prima dell'arresto di Gesù, secondo il racconto di Giovanni. Come in un sapiente montaggio, l'evangelista fa coincidere l'apice della tensione che si è venuta a creare intorno a Gesù, con la tragedia della morte improvvisa di Lazzaro, uno dei migliori amici del Nazareno. A Betania, a casa dei suoi tre amici, Lazzaro, Marta e Maria, Gesù si rifugiava spesso quando, col cuore gonfio di tensione e d'incomprensione, lasciava la Gerusalemme che uccide i Profeti per trovare un angolo di serenità.  

            Betania svela così il volto di un Dio che sente il bisogno di essere amato e che si disseta della fede della Samaritana, cercatrice di Dio. Betania è l'icona dell'amicizia tra Dio e l'uomo ed è il segno di un approccio diverso e proprio su Betania, si abbatte la tragedia: Lazzaro di ammala gravemente. Qualcuno si prende la briga di avvisare Gesù e di dirgli: "Il tuo amico è malato". Egli ora lo sa, ma non fa nulla, e Lazzaro muore. Che mistero l'apparente silenzio di Dio.

            Il tumulto è grande, c'è molta gente intorno alle nostre amiche, conosciute e stimate e sapendo che arriva il Maestro, finalmente, Marta prima e poi Maria, escono di casa e gli vanno incontro: cercano una Parola, un gesto, uno sguardo. Lazzaro è morto e Gesù era lontano.

            Le sorelle non disperano, non urlano, non inveiscono, né piegano la testa in una rassegnata disperazione, attendono, fiduciose. Il loro amato fratello è morto ma ora l'amico è qui e Dio viene accompagnato a vedere quanta disperazione suscita la morte e qui l'inaudito accade.

            Gesù prima si commuove, poi scoppia in lacrime. Dio piange e questo pianto singhiozzante rompe gli argini, frantuma i pregiudizi, ci rivela il volto del Dio di Gesù Cristo, il vero volto di Dio.

            È un volto di Dio completamente nuovo quello che ci appare, così lontano dai nostri tiepidi dubbi, così diverso dalla nostra fede scadente. Davanti a questo dolore inatteso, Gesù prende una decisione: darà la sua vita perché Lazzaro torni alle sue amate sorelle. 

            Anche a noi, suoi amici, Gesù grida: "venite fuori!". Venite fuori dalla vostra tomba, dalle vostre tenebre, dalle vostre piccole sicurezze, venite fuori dai vostri pregiudizi, dai vostri schemi, dai vostri egoismi.

                                                                                                             don Franco Bartolino

 

Il protagonista di questa Domenica Quarta di Quaresima, è l'ultimo della città, un mendicante cieco, uno che non ha nulla da dare a nessuno e Gesù si ferma per lui perché il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulla sofferenza.

 Lo sguardo di Gesù raccolto dai Vangeli è di una portata straordinaria. Infatti il suo sguardo vedeva sempre oltre, perché l'amore vede sempre oltre: guarda Matteo e non vede un ladro, bensì un uomo bisognoso di fiducia. Nella casa di Giàiro, il capo della sinagoga di Cafarnao, tutti vedono una bambina morta, Gesù vede solo una bambina addormentata. Nella donna adultera tutti vedono una peccatrice meritevole di morte, Gesù vede una donna bisognosa di libertà e di amore. Davanti alla tomba di Lazzaro, Gesù vede già l'amico resuscitato ed è bello carissimi sapere che anche noi siamo visti così. È una nuova creazione quella che compie Gesù con quel gesto: è il cielo di Dio che ancora una volta si impasta con questa terra che siamo noi. La creazione non è avvenuta una volta per tutte ma continua, e la creazione di me stesso avanza; ciechi come siamo, mendicanti d'amore, plasma la nostra vita. La cosa straordinaria è che il gesto di Gesù non guarisce il non vedente all'istante! L'opera di Gesù non è magia ma richiede la partecipazione attiva e se questi non avesse accettato di correre alla piscina di Siloe per lavarsi, sarebbe stato solo un non vedente con gli occhi pieni di fango. 

Una volta che il non vedente è guarito iniziano i guai. Inizia un feroce dibattito: chi lo ha guarito e perché di sabato? All'istituzione religiosa non interessa il bene, per questi ultimi l'unico criterio di giudizio è l'osservanza della legge. C'è un'infinita tristezza in tutto questo poiché per difendere la dottrina negano l'evidenza.

 L'ex non vedente prima descrive Gesù come un uomo, poi come un profeta, poi lo proclama Figlio di Dio. La fede è una progressiva illuminazione, passo dopo passo, ci mettiamo degli anni per riuscire a proclamare che Gesù è il Signore. Si dice che la fede è cieca e non è affatto vero. La fede è vedere, aprire gli occhi su questo mondo. Se non abbiamo nulla da raccontare, se viviamo una fede imbavagliata significa che non abbiamo incontrato Gesù.

           

 

Dopo una fugace escursione sul monte Tabor, abbagliati dalla bellezza di Cristo e dalla forza penetrante della sua Parola, in questa terza domenica di Quaresima veniamo ricondotti nuovamente nel deserto. L’esperienza di Israele che, durante l’esodo verso la terra promessa, soffre una terribile arsura, anticipa e prefigura quella del Signore Gesù, assetato e «affaticato per il viaggio» nella sua ricerca dell’uomo in esilio da se stesso.In questa domenica siamo messi a confronto con la «sete», quel bisogno fondamentale di cui tutti facciamo quotidiana esperienza, che può addirittura spingerci a tirare fuori il peggio di noi stessi, quando non è adeguatamente soddisfatto.

La donna che incontra il Signore Gesù al bordo del pozzo di Giacobbe sembra rassegnata alla necessità di dover ogni giorno tornare a ripetere gli stessi gesti, senza sentirsi mai del tutto appagata. Di fronte alla richiesta d’acqua di questo sconosciuto appena incontrato, la donna non si ritrae, ma entra in dialogo. Spesso non riusciamo a scorgere dietro alle domande e alle provocazioni, che ci interpellano ogni giorno, la forma ordinaria con cui Dio, dentro la realtà, verifica la nostra disponibilità ad aprirci a una speranza più grande.

Quella speranza che secondo l’apostolo «non delude» perché non si fonda più soltanto sul bisogno, ma anche sul desiderio della promessa di Dio: «Dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Dopo aver innescato un desiderio di vita e riacceso la speranza di poterlo anche esprimere, Gesù conduce gradualmente questa donna a manifestare serenamente tutta la verità di se stessa: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui».
Prendendola quasi per mano, il Signore aiuta la donna, con estrema delicatezza, a riconoscere di non essere ancora riuscita ad estinguere la sete più profonda presente nel suo cuore.

 Solo l’ammissione di questa fragilità permette alla samaritana di incontrare finalmente nella carne del Verbo tutto «l’amore di Dio riversato» nel cuore della nostra esperienza umana, fino a riconoscere in lui «un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto». Questo, però, viene percepito senza alcuna forzatura, anzi come l’esperienza di poter ricevere ancora un inatteso regalo di pace.

 Il dialogo tra Gesù e questa donna è così profondo da essere in grado di rimettere in circolo tutta la speranza già versata anche nei nostri cuori mediante lo Spirito, fin dal giorno del nostro battesimo. La monotonia del nostro quotidiano, nel quale cerchiamo di estinguere la nostra sete, è continuamente spezzata dalla Parola del Signore, capace di farci tornare alla nostra sorgente interiore, all’unico prezzo di essere disposti a riconoscere la verità di noi stessi. 

Il primo passo verso questo desiderabile incontro lo compie sempre il Signore, che ci consente di confessare la nostra fragilità solo dopo aver dichiarato la verità del suo desiderio d’amore per noi. Ne siamo sicuri perché «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi», non per sentito dire, ma «perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

                                                                                                          sr Annafranca Romano

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Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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