Nel Vangelo di questa domenica, Marco intreccia due incontri ed entrambe le protagoniste sono donne. Questi personaggi femminili sono anonimi e li accomuna il termine figlia e soprattutto il numero 12, il numero della pienezza. Da 12 anni la povera donna soffre di perdite di sangue e la ragazza morente ha anch'essa 12 anni.

Il tema attorno al quale ruota questo duplice incontro è la fede. Giairo è uno dei responsabili della sinagoga di Cafarnao, un uomo di fede eppure davanti alla sofferenza della figlia la sua devozione entra in crisi e non gli rimane che gettarsi ai piedi del Maestro. Gesù si incammina ma ecco l'imprevisto che fa rallentare il corteo: una donna impura tocca il mantello di Gesù. Non aveva il coraggio di chiedere il miracolo e le era proibito toccare perché avrebbe trasmesso la sua impurità. Interessante: molti si avvicinano, una sola lo ha toccato. "La folla spinge, lei tocca” dice sant’Agostino e poi la guarisce: “Va' la tua fede ti ha salvata”.

Il tempo è passato, La figlia di Giairo è morta, inutile andare ma Gesù chiede a Giairo di fidarsi. Gesù gli cammina vicino e sente che Giairo ha bisogno di un cuore dove possa appoggiarvi il suo dolore: «Non temere, soltanto continua ad aver fede». Gesù annuncia la buona notizia che la bambina dorme, non è morta. Gesù prende con sé il padre e la madre, ricompone la famiglia e prende per mano la bambina. Le due azioni di Gesù riportate da Marco oggi sono unite tra loro proprio dal toccare. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità.

Non era lecito per la legge toccare un morto, ma Gesù è libero. Sa che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. La prende per mano. Gesù è la mano che ti prende per mano: la sua mano nella mia mano. Prima la tocca, poi le parla con un vezzeggiativo: “Ragazzina è un ordine, alzati”. Gesù usa l'aramaico, la lingua che profumava di casa. Sia Giario che l'emorroissa, sono messi davanti al dolore e alla morte e sono invitati a fare il passo decisivo dell'abbandono, della fede.

Il Vangelo di questa domenica, racconta cosa accade quando c'è da compiere un cambiamento nella vita. “Passiamo all'altra riva” è l'invito di Gesù ad andare verso il nuovo e il cambiamento. Quando pensiamo di essere finalmente arrivati, il Signore ci spinge a prendere il largo. La vita è una continua attraversata dove si lasciano delle rive per arrivare ad altri approdi, e ogni volta si lascia il certo per avventurarsi verso il nuovo e l'incerto.

Un bel quadretto tenero che viene interrotto da qualcosa che metterà in crisi la fede dei dodici, che susciterà in loro la domanda che è al centro del Vangelo di Marco: “Chi è costui?”. Si scatena “una grande tempesta di vento”.

La tempesta, simbolicamente, è la resistenza dei discepoli ad andare in terra pagana. Se lasciamo spazio al nuovo, al cambiamento, ecco la tempesta! Ogni passaggio nella vita comporta una tempesta. Le onde sono le paure che emergono in questi momenti: “Sarò in grado di farcela? Riuscirò a gestire questa novità?”. Noi speriamo e sogniamo una vita tranquilla, senza tempeste anche se sappiamo che non è possibile. E se imparassimo, invece, ad affrontare le tempeste: in che modo? Fidandoci di Lui!

E Gesù cosa fa nel bel mezzo di una tempesta? Dorme, come se non gli importasse, o perlomeno è questa la sensazione che hanno i discepoli. Dobbiamo ammettere che non di rado abbiamo anche noi la stessa sensazione. In alcune situazioni Dio sembra assente, sembra che abbia di meglio da fare.

Se Lui non risponde quando e come voglio io, allora si è addormentato. Se Lui non risolve i miei pasticci, allora è lontano e distante. Sicuri che ad essere addormentata non sia la nostra fede? Ecco allora una domanda preziosa: chi dorme? Io o il mio Dio? Dio sembra dormire e non interviene perché vuole lasciare alle nostre capacità, il compito di affrontare le tempeste della vita. Siamo splendidamente e terribilmente liberi.

                                                                                                                                                   don Franco Bartolino

         La liturgia di questa undicesima domenica del tempo ordinario ci propone un brano evangelico in cui Gesù, attraverso due brevi parabole, ci parla del Regno di Dio. Ci troviamo all’inizio del Vangelo di Marco, dopo la chiamata dei primi discepoli e le prime guarigioni, che non tardano a destare nei farisei un atteggiamento di diffidenza e di ostilità verso Gesù di Nazareth e verso il suo messaggio.

Il Signore insegna alla folla in riva al mare, per mezzo di parabole. Si riferisce sempre ad azioni di vita quotidiana di coloro che ascoltano, attinte dal mondo dell’agricoltura e della pastorizia.

 Nel Vangelo sono poste al centro della nostra attenzione il seme e l’opera del seminatore. Il brano è preceduto da una parabola ben più complessa e articolata del seminatore e dei diversi tipi di terreno, che poi Gesù stesso spiegherà ai discepoli. Il seme ha un grande valore simbolico che Cristo richiama più volte.

Le parabole odierne si riferiscono, in particolare, a due aspetti: il primo è che il seme ha un suo ciclo di vita e di crescita, fino a portare frutto, che gli è proprio e che non dipende direttamente dall’azione del seminatore; il secondo è che il più piccolo dei semi, quello di senape, cresce e diventa un grande albero su cui gli uccelli trovano rifugio. L’elemento comune alle due parabole è l’inattesa potenza di un seme che, grande o piccolo che sia, è sempre molto lontano dalla nostra idea di potere e di forza.

  Il Regno raccontato in queste parabole viene, quindi, a portare un messaggio nuovo su Dio che “sceglie i deboli per confondere i forti ” (1Cor 1,27), diverso dall’idea di un Regno che con azione “di forza” divina agisca e cambi gli eventi della storia.

 La prima parabola presenta il Regno come dono di Dio, che cresce misteriosamente agli occhi dell’uomo, che sia sveglio o dorma, di giorno o di notte (Mc 4,27). A questo mistero della spiga che spontaneamente cresce, potrebbe appellarsi il nostro senso di responsabilità, la coscienza di essere strumenti di Dio affinché il Regno si realizzi. Eppure la consapevolezza che ciò che portiamo è più grande di noi (“abbiamo questo tesoro in vasi di creta” 2Cor 4,7) e ha la potenza, se viene accolto, di crescere oltre ogni possibilità e aspettativa, dovrebbe darci quell’ attiva vigilanza verso noi stessi, verso gli altri, verso gli eventi, che è già lavorare per il Regno, non ostacolarlo, leggere i suoi segni. Mistero immenso quello del rapporto tra responsabilità e dono, che richiede fede, ma all’ accoglienza  La seconda parabola contrappone la piccolezza del seme alla straordinaria grandezza dell’albero che ne deriva. L’intenzione è di mostrare il senso positivo dell’oggi, della potenza che il seme possiede già in se stesso, come promessa di qualcosa di nuovo che può crescere. È la storia di Gesù: la Risurrezione non ripaga il suo “fallimento” terreno, ma mostra la vittoria nascosta nelle vicende della sua morte. La vittoria di non aver mai ceduto a conquistare il cuore degli uomini “forzandolo”, scendendo dalla croce, mutando le pietre in pani, buttandosi dal pinnacolo del Tempio.

        La parabola ci ammonisce: tutti i nostri criteri di grandezza e di apparenza, di ciò che conta e ciò che non conta, di ciò che ha futuro e ciò che non lo ha, non sono quelli del Regno di Dio. La piccolezza può essere grandezza, il fallimento può essere vittoria.

       Il regno di Dio passa attraverso una fase di crescita nella storia degli uomini e coinvolge l’azione della chiesa. La sua manifestazione piena è però rimandata oltre il tempo quando il Cristo glorioso vincerà definitivamente la morte e “consegnerà il regno a Dio Padre”.

      Dio chiede di mettere in atto tutte le energie di natura e di grazia di cui disponiamo; Egli, dal poco che possiamo offrire, saprà trarre il molto. E’, infine, oltremodo paradossale che questo agire di Dio con l’uomo continui nel tempo attraverso la piccolezza e la debolezza di uomini chiamati ad essere sua proprietà, suo corpo, servendosi dei quali il regno di Dio avanza irrevocabilmente nella storia fino al momento finale.

                                                                                                                              sr Annafranca Romano

La celebrazione eucaristica domenicale non è un club esclusivo di persone in grazia di Dio. Per Gesù è l'assemblea dei non salvati, infatti l'Eucarestia è per chi si sente bisognoso, sofferente. Vado a Messa perché ho bisogno del suo amore, non perché sono in regola. Nell'Eucarestia accogliamo il Signore con le nostre mani sporche e Lui viene lo stesso, si posa sulle mie mani non perché lo meriti ma perché ne ho bisogno e perché Lui è più grande dei miei errori. Ecco perché l'Eucarestia è festa, festa degli uomini amati non dei giusti.

Chi celebra l'Eucaristia sa di non meritarla: "O Signore, non son degno di partecipare alla tua mensa" ma conosce quell'abbraccio che fa ripartire, che rimette in cammino, che traduce la debolezza in una potenza inaudita. Amare un pezzo di pane, è facile -  siamo sinceri - credere che lì c'è Dio non ci cambia poi così tanto la vita. Credere, che dietro certi volti ci sia Dio è più impegnativo. Santa Teresa di Calcutta diceva: “Mi è difficile credere che la gente possa vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di pane e non lo possa vedere nelle persone, negli uomini e nei volti”.

Per secoli si è pensato che tutto ciò che era corpo era sporco, negativo, dimenticando che il mio corpo è il luogo di Dio. Quando mi accosto alla comunione, il Corpo di Cristo viene ad abitare in casa mia. Se lui non si vergogna di venire dentro di me, se lui si degna di abitare nella mia casa, allora devo amare e accogliere questo mio corpo, devo provare a volergli bene. Quando partecipiamo alla Santa Messa non solo ci viene detto: “Corpo di Cristo” e noi diciamo il nostro “sì”, il nostro “amen”; Dio è onorato di venire nel mio corpo e il mio corpo è onorato di riceverlo.

È bello sperimentare ad ogni Eucarestia Dio che mi cerca, che arriva per avvolgere i dubbi del mio cuore. Anche Lui non può stare da solo, ha bisogno di compagnia, una compagnia spesso fatta di silenzi. Sembra incredibile eppure a Lui andiamo bene così, un intreccio di ombre e luce. Di per sé noi non abbiamo nulla da offrire, solo una storia accidentata che ha bisogno di cure; a noi spetta solo accoglierlo.

Tutto il Suo corpo, la Sua storia, la Sua vita appassionata d'amore sono lì, in quel fragile pezzo di pane da mangiare, da contemplare, da custodire. Peccato che a questo pane ci siamo abituati e spesso o ci addormentiamo o camminiamo distratti verso l'altare; eppure Cristo non si nega, siamo magari inaffidabili, eppure Cristo non si nega perché l'Amore cerca casa, la nostra!

                                                                                             don Franco Bartolino

Spiegare la Trinità è qualcosa di impossibile, come quando vogliamo spiegare il motivo per cui una persona ama qualcun altro. Possiamo spiegare all'infinito che cos'è l'amore, ma lo comprendiamo realmente solo quando facciamo quell'esperienza. Lo stesso vale per Dio: possiamo sprecare fiumi di parole, per spiegare che cosa sia la Trinità, ma Dio si comprende soltanto quando lo si sperimenta dentro la propria vita.

Solo dopo aver ricevuto il dono dello Spirito, possiamo immergerci nel mistero del Dio raccontato da Gesù di Nazareth. Solo Lui poteva dirci in modo profondo e definitivo chi è Dio. Solo Lui poteva raccontarci la novità sorprendente che Dio è Trinità. Un solo Dio in tre persone, Padre, Figlio e Spirito. Il loro amore è talmente profondo che li rende uno!

Oggi è festa di un Dio che è relazione. Dio non è come l'immaginavamo, un'entità solitaria ma una realtà viva, relazionale. Dio non è un’infinita solitudine ma è un'infinita compagnia, Egli è famiglia.

Sulla Trinità il Vangelo non offre formule ma il racconto dell'ultima missione affidata da Gesù agli apostoli: battezzate ogni creatura nel nome della Trinità. Battezzare significa letteralmente immergere ed oggi ci viene chiesto di immergere nell'amore le persone che incontriamo. Le nostre relazioni, gli abbracci, le parole, il perdono... tutto questo significa battezzare!

Potremmo essere veramente diversi se ci lasciassimo stupire dal mistero della Trinità. Andiamo quindi alle fondamenta della fede, alla scoperta di quel Dio amore che continua a creare a Sua immagine e scopriremo che esistiamo solo per amare. Come disse don Tonino Bello, siamo chiamati a vivere sulla terra ciò che le tre persone divine vivono nel cielo: la convivialità delle differenze.

                                                                                                                    don Franco Bartolino

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Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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