Il popolo di Israele è stato scelto come segno della Presenza del Dio Unico tra le nazioni, e ha dovuto imparare che al di là di un culto dovuto, doveva avere come distintivo il suo modo di vivere la giustizia (cfr. Is 58,7-10): Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».
Ecco perché comprendiamo Gesù quando dice dei discepoli suoi di essere sale della terra e luce del mondo (cfr. Mt 5,13-16). Siamo ancora nel contesto delle beatitudini e il Signore ci ha invitato a sentire già qui, la gioia dei beati.
Le Beatitudini consistono nell’anticamera del Regno dei Cieli, perché lì, dove si riesce a vivere nello spirito di libertà che è propria dei beati, lì si sperimenta come è vero e possibile il Regno dei Cieli. Certo, su questa terra non come realtà duratura e perfetta, ma pur sempre una realtà, nonostante i caratteri di lotta, di sofferenza che l’essere cristiano comporta.
Nel suo ‘saluto alle virtù’, San Francesco d’Assisi dice che non si può avere una delle virtù e offendere l’altra; chi possiedi una, possiedi tutte le altre… Questa preghiera francescana è soltanto uno riflesso delle beatitudine donataci da Gesù, perché eventualmente, uno che è povero in spirito sarà anche misericordioso, pacifico, puro, mite, desideroso di giustizia e proprio per questo perseguitato in questo mondo; sa anche che il suo pianto non è invano, perché è cosciente che la grazia di soffrire le stesse penne del suo Signore è già beatitudine, se le viviamo ‘come’ il Signore.
Quindi, non può “non brillare” uno che prende sul serio il cammino cristiano avendo nelle beatitudine il suo stile di vita. E di questi grazie a Dio il mondo è pieno, perché, anche se nascosti e silenziosi, come il sale e come la luce, non passano inosservati davanti ai compagni di lavoro, nelle faccende domestiche, nei gruppi di amici, nelle università ecc. ‘E vero che gli uomini degli affari e del benessere li tiene per poco conto, ma non riescono, anche uccidendoli, a fare a meno di loro: anche morti, brillano come raggi di speranza.
Ecco perché Paolo insiste in non avere altro vanto che la croce del Signore: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (cfr. 1 Cor 2,1-5).
E beati quelli che sanno riconoscere la loro presenza: sono proprio loro a dare il sapore del Regno di Dio a questo mondo! Beati noi, se affianco a loro, aiutiamo il mondo con le nostre opere di bontà e di giustizia ai fratelli e sorelle, rendendo gloria al Padre nostro che è nei cieli.
Gesù, dopo aver sostenuto la tentazione nel deserto, come un nuovo Mosè sale sul monte e annuncia la sua Torah, questa volta non più incisa sulla di pietra ma nel cuore dell'uomo.
«Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna». Gesù si accorge del dolore, delle lacrime, delle ingiustizie, delle potenzialità, dei limiti, delle situazioni concrete di chi lo segue. Le beatitudini sono rivolte non solo ai suoi discepoli, ma a tutti i credenti e sono il cuore del Vangelo perché evocano fatiche, lacrime e speranze. Nel suo elenco ci sono tutti gli uomini: i poveri, chi piange, gli incompresi e quelli dal cuore puro, gli unici in grado di vedere Dio.
Mosè era salito sul monte Sinai e aveva le Dieci Parole, in pratica cosa bisognava fare e cosa non bisognava fare; Gesù, invece, sale sul monte e dona le beatitudini, in pratica come bisogna essere e a cosa siamo destinati, e siede come un Maestro secondo l'uso del popolo di Israele.
A una prima lettura sembra elogiare la sfortuna perché Gesù definisce beati, cioè felici, chi è povero, chi piange, eppure sappiamo che chi vive nella povertà o nel pianto, chi è perseguitato non è per nulla felice e sembra esaltare il dolore, la sofferenza, la sopportazione, ma non è così, infatti Dio non ama il dolore né ci invita alla rassegnazione.
Quando Gesù parla di felicità, ne parla al futuro perché è verso il futuro che dobbiamo guardare per essere felici. Siamo sinceri: per noi felici sono quelli che vestono bene, con la casa in montagna, con un posto di lavoro di prestigio, amici influenti. Eppure Gesù non sembra essere dello stesso parere: felici sono i poveri in spirito, gli afflitti, gli affamati di giustizia, i perseguitati.
La felicità è una parola ebraica “ascer” che vuol dire "avanzare"; essa non è la meta ma la strada che mi porta alla meta. Essere felici, insomma, non è solo "stare bene" ma vivere tutto ciò che c'è da vivere e non ci sarà nessun paradiso per chi non sa vivere l’oggi nonostante tutto.
Le beatitudini non sono dei comandi ma bensì delle proposte e non sono una soluzione ai nostri problemi, sono un cammino. Esse non sono solo un ritratto del discepolo ideale, ma prima di tutto sono un ritratto di Gesù! Lui è il povero in spirito, l'afflitto, l'affamato, il mite, il perseguitato, il misericordioso, il puro di cuore e l'operatore di pace.
Le beatitudini sono un invito a guardare le cose da una prospettiva diversa e accorgerci che le cose non sono solo come sembrano; è questione di cambiare punto di vista sul mondo. Prendere sul serio le beatitudini non significa imparare una nuova regola morale, ma guardare con occhi diversi la nuda e cruda realtà che stiamo vivendo: è il tentativo di guardare dentro le cose e guardarle con gli occhi di Dio. Se accogliamo le beatitudini, la loro logica cambia il nostro cuore perché solo così possiamo cambiare questo vecchio, stanco mondo.
Gesù dopo aver ricevuto il battesimo, comincia la sua attività ed inizia dalla Galilea, in particolare da Cafarnao, infatti buona parte del ministero si svolgerà attorno al lago di Tiberiade. L’evangelista Matteo, da buon ebreo, chiama “mare il lago di Genezaret, perché sulle cui rive era fiorente all'epoca l'industria della pesca. Cafarnao chiamata anche “Galilea delle genti” perché abitata, in parte, da pagani aveva una cattiva fama, sia sul piano politico che religioso per una certa contaminazione dovuta alla permanenza degli Assiri. Dio è così, vuole sporcarsi le mani e ama il rischio.
Gesù si sposta dalla Giudea alla Galilea utilizzando la parola d’ordine: «Convertitevi», cioè cambiate mentalità, cambiate modo di pensare. Un particolare interessante: Gesù chiede a tutti di cambiare ma solo ad alcuni chiede di seguirlo, perché non si può seguirlo senza essere disposti a cambiare cioè a mettersi in gioco e a trasformarsi. Certo, cambiare genera conflitti, perché cambiare è andare verso l'ignoto, verso ciò che non conosco e che ancora non sono. Egli però ci raggiunge, ci viene incontro e prima che noi agiamo, Lui è già venuto gratuitamente senza attendere nulla da noi.
Poi ecco l'annuncio tanto atteso: «Il regno dei cieli è vicino». Ecco la bella notizia: Dio si è avvicinato e cammina, vede, chiama, come ha fatto con i primi discepoli e la sua proposta non riguarda una dottrina religiosa ma bensì una relazione con Lui, un incontro che stravolge la vita di quei pescatori. Egli li raggiunge nel luogo di lavoro, non nella sinagoga o al tempio ma sulla riva del lago con in mano le reti. È davvero stupenda questa partenza: Gesù non chiede se sono fedeli alle preghiere, non li interroga sui Dieci comandamenti: niente di tutto questo! Egli li invita solo a stare con Lui. L’esperienza della fede parte da qui, da questa chiamata a stare con Lui. A volte il cristianesimo lo riduciamo a una serie di cose da fare e altre da non fare, come se tutto si risolvesse in un grande gioco, dove ti conquisti il paradiso se hai la tua tessera a punti completata! Meno male che la vita cristiana non è questo incubo!
Al tempo di Gesù erano i discepoli a scegliersi il maestro e non viceversa: qui è invece Gesù che sceglie liberamente i suoi. «Venite dietro a me»: non è un'indicazione precisa, è solo un "fidati e vedrai!". Se Gesù fosse venuto a darci delle regole, ci avrebbe lasciato un codice invece ci ha mostrato una strada. Ed è curioso che i primi quattro apostoli siano due coppie di fratelli. I suoi primi discepoli sono “pescati” da una fraternità. Chissà quanti pescatori ci saranno stati quel giorno sulla riva del lago, ma Gesù sceglie proprio due coppie di fratelli perché la fraternità è la sola condizione con cui è possibile mettersi in cammino dietro di Lui per superare le logiche personali, abbattere i propri egoismi ed aprirsi alla logica dell'amore.
In questo primo gruppo sono presenti i tre discepoli che saranno poi i protagonisti dei momenti salienti della vita di Gesù e promette loro una diversa qualità di vita, promette una vita intensa, vera, piena: «Vi farò pescatori di uomini». Egli non cambia ciò che c'è attorno a noi, Egli cambia noi. Questi poveri pescatori faranno cose che non avrebbero mai immaginato e lancia una sfida: essere qualcosa di grande.
«Subito lasciarono le reti e lo seguirono». Questa precisazione ci ricorda che le cose più importanti della vita si fanno senza rifletterci troppo perché nei troppi pensieri s'insinua la paura, l'insicurezza. Nella fede prima si segue e poi si comprende perché le cose di Dio bisogna viverle per comprenderle. Gesù ci viene a cercare nella nostra storia personale e ci invita a stare con Lui e se il nostro cuore è troppo duro, coraggio, il Figlio del falegname ha mani forti e allenate.
Finite le grandi feste del Natale, questo nuovo tempo liturgico che la Chiesa ci consegna, è un invito forte a costruire la nostra ferialità. È nello scorrere quotidiano e feriale dei giorni che dobbiamo vivere lo stupore del Dio-con-noi, la novità e la bellezza del Volto che Gesù ci è stato rivelato nel Natale.
“Io non lo conoscevo”, ripete un assorto Giovanni Battista e lo stupore di domenica scorsa “Tu vieni da me?” gli ha spalancato un mondo del mistero di Dio totalmente inattesa. Giovanni credeva di sapere, credeva di credere, credeva di conoscere e tutta la sua vita si era consumata intorno a quell'attesa, a quella preparazione e a quell'incontro, eppure ammette una debolezza: io non lo conoscevo.
“Ho visto”, dice Giovanni; ha visto Gesù venire verso di lui, dopo il Battesimo. Ha visto un Dio che gli si fa incontro, presente, prossimo, vicino come lo abbiamo visto noi in questi brevi ed intensi giorni di Natale. Abbiamo visto un Dio bambino, che ribalta le nostre prospettive e che si rivolge agli sconfitti della storia. Abbiamo visto, se non ci siamo lasciati sopraffare dall'inutile buonismo che emoziona e non converte.
Il Battista aveva le sue idee sul Messia, ma dovrà affermare: "Io non lo conoscevo. Pensavo che lo avrei riconosciuto in un certo modo e invece è venuto e si è manifestato come non me l'aspettavo". È stato l'incontro con Gesù che gli ha fatto capire chi era davvero il Messia. A volte riduciamo Dio a dottrine, catechismi, dogmi, regole, ma Dio è un incontro.
Il Vangelo di Giovanni non racconta la scena del Battesimo di Gesù, ma mette sulle labbra del Battista asceta la rivelazione del Messia: Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! A differenza della tradizione ebraica, dove è l'uomo che si deve offrire a Dio, qui ci viene presentato un Dio che capovolge le logiche del gioco: è Lui stesso che si offre per noi, che si dona e si consegna. Questo capovolgimento è una vera rivoluzione perché sposta le priorità del discepolo: non c'è nulla da conquistare, ma tutto è un dono da accogliere e da condividere.
Gesù-agnello, identificato con l'animale dei sacrifici, introduce qualcosa che capovolge e rivoluziona il volto di Dio: il Signore non chiede più sacrifici all'uomo, ma sacrifica se stesso; non pretende la tua vita, offre la sua; non spezza nessuno, spezza se stesso; non prende niente, dona tutto.
La festa del Battesimo di Gesù conclude il tempo liturgico del Natale e cade la domenica dopo la solennità dell’Epifania. I Padri della Chiesa sostenevano che Gesù, scendendo nelle acque del Giordano, ha idealmente santificato le acque di tutti i Battisteri; dal più semplice e moderno, posto all’ingresso delle chiese, a quelli delle grandi cattedrali dei secoli scorsi.
Nella vita di Gesù osserviamo molti momenti nei quali compie azioni che, in apparenza, non hanno alcuna logica umana. Perché volle incarnarsi? Perché è stato soggetto a Maria e a Giuseppe tutta la vita? Perché pregava se Egli stesso era Dio? Nel caso del Vangelo di oggi, perché si fa battezzare? Giovanni Battista provò a dissuaderlo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (Mt 3, 14). Certamente Gesù non aveva alcun bisogno di tali azioni. Allora, perché lo ha fatto? Papa Francesco afferma: «Perché vuole stare con i peccatori, si mette in fila con loro e compie lo stesso gesto». Gesù ha voluto darci un esempio, ci ha insegnato la via che dobbiamo seguire; è venuto sulla terra per salvarci e farci diventare figli di Dio. Il suo Battesimo è strettamente connesso al nostro, per questo si fa carico delle nostre necessità.
Anche noi possiamo imitare Gesù, uscire e farci carico delle necessità degli altri, «è anche questo il modo in cui possiamo sollevare gli altri: non giudicando, non suggerendo cosa fare, ma facendoci vicini, compatendo, condividendo l’amore di Dio». Siamo chiamati ad imitare Cristo, e un modo concreto di farlo è occuparci dei bisogni degli altri. Uscire da noi stessi, guardare il bisognoso, che necessita della nostra attenzione, del nostro tempo, del nostro sorriso. Imitare Cristo volgendo lo sguardo verso il prossimo: è questa la strada della vera felicità.
Meditare sulla nostra condizione di figli di Dio è una realtà che dona gioia, ci insegna a vedere il mondo in modo nuovo, senza soffermarci sul colore della pelle o sulle idee politiche.
Oggi è un giorno importante per meditare sul dono ricevuto con il Battesimo. Il più importante della nostra vita, quello che ci caratterizza come persone e come figli di Dio.
«Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento». Gesù è forte perché si sente amato. La sua forza risiede nel fatto che il Padre lo ama, si fida di Lui. Non basta che Egli ami se stesso, che sappia cosa fare nelle situazioni difficili. L’unica prerogativa che farà rimanere Gesù protagonista della sua storia è questo Amore del Padre.
L’amore è quella “forza interiore” che alimenta il viaggio della nostra vita ed è contemporaneamente verticale ed orizzontale. Orizzontale perché sostenuto da chi ci sta intorno, da condivide con noi la nostra vita e le nostre scelte. Ma è soprattutto verticale perché viene direttamente da Dio e passa attraverso la vita spirituale.
Se dalla preghiera, dai sacramenti, dalla partecipazione alla Messa, dall’ascolto della Parola di Dio, dall’adorazione e da ogni altra pratica che riguarda la nostra fede non usciamo con questo amore, c’è qualcosa che non funziona. Per sentirsi amati bisogna amare. Solo nel dare, cominciamo anche a ricevere. Se aspettiamo di ricevere per poi dare, passeremo tutta la vita nelle acque del Giordano. Gesù dona tutto se stesso, per questo cresce in Lui il sentirsi una sola cosa con il Padre.