La liturgia di questa domenica ci propone una bellissima e lunga meditazione sulla misericordia di Dio, con tre letture che sviluppano questo tema. Il Vangelo, in particolare, nel capitolo di Luca, che parla della misericordia con tre parabole: quella della pecorella smarrita, della dramma perduta e del figliol prodigo. Esse ci dimostrano che il nostro non è un Dio inflessibile, rigido, non è un giudice spietato, ma un Padre misericordioso, ricco di bontà, d’indulgenza, desideroso di salvare tutti i suoi figli. È il cuore di Dio che si china sulla miseria umana, quella di ciascuno di noi. Nel perdono accolto da Dio acquistiamo dignità e valore, lo sguardo misericordioso del Padre può cambiare la nostra vita.
Essa è un cammino di liberazione verso questa ricchezza, perché la libertà non sia fonte di peccato. Il perdono non è riparazione di un guasto, è fare un passo in avanti nell’accoglienza totale di Dio e dei fratelli, è requisito fondamentale di una relazione sana, condizione del nostro crescere in umanità nella fedeltà all’Amore.
È convertirsi allo stile di Dio! I testi biblici ci dicono: non abbiate paura del Dio che perdona, egli non ci cancella dal suo cuore, ci cerca senza chiedere nulla in cambio. Siamo figli perdonati!
Questa accorata parabola di Gesù descrive ai suoi ascoltatori il cuore dell’uomo davanti a Dio, suo Padre. Da Adamo ed Eva, che nel giardino si nascosero dopo il peccato, sino alla nostra vita presente, ogni uomo vuole affermare se stesso a prescindere da Dio. Il figlio minore si appropria di beni che, di diritto, gli spettano dopo la morte del padre; anticipa con la sua volontà l’ultimo distacco, e va lontano da lui, presumendo che la vita sia bella solo quando viene vissuta con le proprie forze, la propria volontà, le proprie scelte.
Ma una vita così genera solo fame: di pane, d’amore vero, della propria figliolanza. Il figlio, rendendosi conto di aver perso la sua dignità e la sua identità, si propone di tornare da suo padre con il desiderio di essere un servo fra i servi. Ma il padre, che ha sofferto la sua distanza e atteso il suo ritorno, corre ad accoglierlo, lo abbraccia, lo bacia, gli dona i suoi beni e lo riconosce figlio! Un figlio che era morto ma è tornato in vita. Il figlio maggiore, obbediente come un servo nei confronti del padre, alla notizia del ritorno di suo fratello si indigna, non vuole partecipare alla festa. Anch’egli si ritira dalla dignità e dalla identità della sua figliolanza…
Questi figli vivono dentro di noi e la parabola interpella la nostra libertà: vogliamo partecipare alla festa dei perdonati dal Padre, di coloro che realmente sono amati da Lui, resi figli soltanto per suo dono e per la sua misericordia senza limiti?
Gesù vuole aprire il nostro cuore alla misericordia, non soltanto in modo passivo, ma anche attivo, invitandoci a praticarla nel nostro quotidiano cammino.
Chiediamogli la grazia di corrispondere al suo desiderio e di accogliere in noi questa gioia della misericordia divina, non solo per noi stessi, ma anche per quelle persone che riteniamo indegne, certamente amate dal Padre celeste, che vuole la salvezza di tutti.
Se nella Liturgia di Domenica scorsa il Signore ci ha proposto di eseguirlo nel cammino dell'umiltà (cfr. Lc 14,1.7-14) oggi ci chiede di essere uomini e donne liberi, incluso negli affetti più legittimi: "Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo" ( Lc 14, 25-33). Disumano il Signore? No! Lui sa che ogni affetto trova la sua radici vera in Lui stesso. Anche Lui ha scelto di vivere gli affetti in un contesto familiare a Nazaret e per 30 anni!
Ma oltretutto, Lui stesso lo sa che l'opera del Regno di Dio è cosa seria, e non ammette fallimenti, nonostante il suo carattere di piccolezza, debolezza, nascondimento e morte, come il seme. Ecco perché seguirlo, necessariamente ci rendi consapevoli di abbracciare decisamente la croce e portarla con amore e fedeltà.
È solo nella consapevolezza di essere discepoli che camminano dietro al Maestro, a renderci uomini e donne liberi, capaci di umana fraternità.
Ecco allora il senso dell' atteggiamento di Paolo, che dopo avere conquistato a Cristo Onesimo, lo schiavo, lo invia come uomo libero, desiderando di liberare dalla schiavitù del potere e della cultura discriminante del suo tempo anche il cuore di Filemone, suo padrone. Anzi, Paolo ci dà ancora una volta, la dimostrazione concreta dell'essenza dell'essere cristiano: essere una cosa sola in Cristo. "Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso" (Fm 9b-10.12-17).
Quanta umanità troviamo in queste parole accompagnate dalla concretezza della fede!
Quindi, seguire Gesù, non solo ci rendi liberi ma ci rende umani, dotati di saggezza, prudenza e senso della vita e della storia.
Aveva già ragione l'autore del libro della sapienza, quando, constatando la bellezza del Creato e la vita dei giusti, ha capito che tutto ha la sua fonte e sostegno nella Sapienza Divina che regge ogni cosa in ogni tempo.
"Chi avrebbe conosciuto il tuo volere,
se tu non gli avessi dato la sapienza
e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza"(Sap 9,13-18b).
E non è Lui, Il Figlio di Dio, fattosi figlio dell'uomo, nostro Signore e Mestre, la Sapienza Eterna, che vogliamo amare e seguire?
Il Vangelo di questa domenica non è propriamente, come potrebbe sembrare, un insegnamento sull'umiltà ma sulla carità, cosa che spesso manca a ognuno di noi. Al tempo di Gesù, con tutta probabilità, il banchetto era l'occasione per certe persone di mettere in mostra la propria superiorità: e questo faceva ancor più specie quando avveniva per mano delle autorità religiose, che tutto avrebbero dovuto fare meno che creare discriminazioni. Invece, la ricerca dei primi posti nei banchetti trasformava la principale occasione di condivisione e di comunione in opportunità di discriminazione e di emarginazione.
E pensare che questa mancanza di carità, frutto della nostra scarsa umiltà, è un atteggiamento fortemente presente anche nelle nostre comunità. Se credessimo veramente forse le nostre comunità sarebbero davvero il luogo dell'accoglienza e della condivisione; invece, spesso, diventano il luogo per esprimere la propria superiorità nei confronti degli altri. I modi per far sentire la nostra superiorità sono innumerevoli: dall’ostentazione della nostra cultura, all'utilizzo abusivo della nostra autorità; dalla pretesa di fare sempre tutto noi, al giudizio negativo su ciò che fanno gli altri; dall'incapacità di lavorare in gruppo, al volersi sempre impicciare anche di ciò che non ci riguarda; dal pregiudizio nei confronti di chi è diverso per estrazione sociale, lingua, etnia o religione, alla costruzione di rapporti cordiali solo con le persone che ci vanno a genio.
Sono tutte cose che avvengono in ogni comunità cristiana, purtroppo, ma che non dovrebbero assolutamente aver ragione di esistere. E che cosa dobbiamo fare per essere comunità accoglienti basate sulla solidarietà? Forse non avremo l'occasione di organizzare banchetti cui poter invitare - come dice il Maestro - "poveri, storpi, zoppi e ciechi"; di certo, abbiamo molte opportunità per trattare gli altri tutti alla stessa stregua, senza sentirci i migliori e senza aspettarci gratificazioni o tornaconti da chiunque.
Sicuramente una certa educazione religiosa passata e non solo, insegnava che con Dio ci si regola attraverso atti religiosi di pura osservanza.
Le parole del Vangelo di questa domenica sembrano rimettere in discussione una visione di intendere il nostro rapporto con Dio. La domanda posta a Gesù "sono pochi quelli che salvano?" parte dall'idea ben radicata nella religiosità ebraica che la salvezza di Dio era solo per pochi eletti, e precisamente quelli appartenenti al popolo di Israele. La risposta precisa alla domanda viene data da Gesù quando alla fine del brano dirà che "verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio".
Quindi la risposta alla domanda se sono pochi i salvati è un bel "no" secco, un "no" all'esclusività del rapporto con Dio, che invece è possibile davvero a tutti, di ogni luogo e tempo, rompendo appartenenze culturali, religiose, etniche, geografiche, economiche e politiche. La salvezza è per tutti! E l'ordine di questo dono di salvezza rovescia la logica umana dove chi vince è sempre il più forte, il più ricco, il più bello, il più bianco, il più furbo. Sono invece i cosiddetti "ultimi" ad essere i primi che Dio comincia ad abbracciare, e non chi sta in testa alla fila. Dio inizia dalla coda e da chi è ricacciato indietro. Dio ama gli ultimi perché lui stesso si è fatto ultimo.
Dio apre la sua porta non solo quella finale del paradiso ma anche quella quotidiana del suo cuore nella vita presente non tanto a chi accumula pratiche religiose, ma a chi opera la giustizia. Operare la giustizia nel Vangelo significa mettere in pratica con azioni concrete l'insegnamento di Gesù. Se non facciamo diventare vita concreta quello che preghiamo la domenica e nelle altre feste comandate, allora non serve a nulla e rischiamo davvero di sentire Gesù che ci dice "non ti conosco", come lo diremmo noi a chi non conosciamo e non frequentiamo e a chi non si fa mai vedere nei momenti importanti della vita. Gesù ci riconosce se sappiamo vivere il suo Vangelo e non solo pregarlo e celebrarlo.
Nell’odierna pagina evangelica, Gesù avverte i discepoli che è giunto il momento della decisione. La sua venuta nel mondo, infatti, coincide con il tempo delle scelte decisive: non si può rimandare l’opzione per il Vangelo. E per far comprendere meglio questo suo richiamo, si avvale dell’immagine del fuoco che Lui stesso è venuto a portare sulla terra. «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!».
Queste parole hanno lo scopo di aiutare i discepoli ad abbandonare ogni atteggiamento di pigrizia, di apatia, di indifferenza e di chiusura per accogliere il fuoco dell’amore di Dio; quell’amore che, come ricorda San Paolo, «è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo». Perché è lo Spirito Santo che ci fa amare Dio e il prossimo. Gesù rivela ai suoi amici, e anche a noi, il suo più ardente desiderio: portare sulla terra il fuoco dell’amore del Padre, che accende la vita e mediante il quale l’uomo è salvato. Gesù ci chiama a diffondere nel mondo questo fuoco, grazie al quale saremo riconosciuti come suoi veri discepoli. Il fuoco dell’amore, acceso da Cristo nel mondo per mezzo dello Spirito Santo, è un fuoco senza limiti, universale.
Fin dai primi tempi del Cristianesimo la testimonianza del Vangelo si è propagata come un incendio benefico superando ogni divisione fra individui, categorie sociali, popoli e nazioni. La testimonianza del Vangelo brucia ogni forma di particolarismo e mantiene la carità aperta a tutti, con la preferenza per i più poveri e gli esclusi.
L’adesione al fuoco dell’amore che Gesù ha portato sulla terra avvolge l’intera nostra esistenza e richiede l’adorazione a Dio e la disponibilità a servire il prossimo.
Per vivere secondo lo spirito del Vangelo occorre che, di fronte ai nuovi bisogni che emergono nel mondo, ci siano discepoli di Cristo che sappiano rispondere con nuove iniziative di carità. E così, con l’adorazione a Dio e il servizio al prossimo, il Vangelo si manifesta davvero come il fuoco che salva, che cambia il mondo a partire dal cambiamento del cuore di ciascuno.
In questa prospettiva, si comprende anche l’altra affermazione di Gesù riportata nel brano di oggi: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione».
Egli è venuto a “separare col fuoco” il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. E’ venuto a “dividere”, a mettere in “crisi” la vita dei suoi discepoli, spezzando le facili illusioni di quanti credono di poter coniugare vita cristiana, mondanità e compromessi di ogni genere.
Si tratta di essere disposti a pagare il prezzo di scelte coerenti col Vangelo, perché occorre soprattutto essere cristiani nelle situazioni concrete, testimoniando il Vangelo che è essenzialmente amore per Dio e per i fratelli.
La divisione che Gesù è venuto a portare sradica dalla staticità dell’ordinario e genera nuova vita. Egli ha portato sulla croce il suo corpo, che siamo noi, perché fosse rigenerato, nel nostro tempo e sempre.