Una storia, due personaggi: un fariseo e un pubblicano. Due uomini che salgono al tempio a pregare con due modi diversi di stare davanti a Dio, agli altri e a sé stessi. 

Il fariseo si ritiene giusto perché, a differenza degli altri, rispetta scrupolosamente i dieci comandamenti e fa una preghiera lunga, in piedi e in silenzio, «pregava così tra sé». Fa una preghiera autoreferenziale perché si è costruito una sua giustizia, con il solo obiettivo di "sentirsi a posto" e non dover dipendere da nessuno, nemmeno da Dio. Nella prima parte elenca ciò che lui non fa, nella seconda, ciò che lui fa. Insomma la sua vita e la sua preghiera sono davvero irreprensibili, il fariseo si ritiene davvero un ottimo religioso. 

Sale al tempio anche un pubblicano. Questi erano amici dei romani, collaborazionisti e per questo odiati dagli ebrei. Egli se ne sta a distanza, il posto che compete a chi è lontano da Dio e la sua preghiera è molto breve. Anche lui dice la verità: è un povero peccatore, sa che da solo non può farcela, ha bisogno del perdono di Dio. Il pubblicano, infatti, non aveva nulla da offrire a Dio per meritare il perdono, neanche la sua conversione; insomma, era un caso disperato. 

Entrambi hanno un atteggiamento vero ma Gesù dice che solo uno se ne va giustificato, il pubblicano. Questi a differenza del fariseo, sa di essere ammalato e di aver bisogno del medico che è Dio. Il fariseo si nasconde dietro ciò che fa, vede solo una parte di sé. Non rifiuta il suo lato oscuro e non riesce ad ammettere che anche lui è un peccatore come il pubblicano. In fondo quello che lui giudica nell'altro è proprio quello che non sopporta di sé stesso. 

Il pubblicano torna a casa giustificato, non perché umile ma perché si apre a chi è più grande del suo peccato. Proprio perché si riconosce disgraziato, che può ricevere la grazia. Proprio perché le sue mani sono vuote che Lui le può riempire. Il pubblicano è salvato perché perduto, perché la misericordia è attratta dalla miseria. Il peccato è l'unica via attraverso la quale sperimentiamo Dio come misericordia. La pedagogia del Vangelo è sconcertante. Dio si rivela ai deboli non ai forti. 

Il viaggio di Gesù verso Gerusalemme sta per terminare ed egli ha appena esortato i discepoli a fare attenzione ai segni che precederanno la sua venuta e a essere pronti ad accoglierlo. proprio per aiutare i suoi lettori a perseverare nel momento della difficoltà e a chiedere con insistenza al Signore che faccia loro giustizia.

Luca racconta questa parabola per i cristiani perseguitati e li conforta dicendogli: “State tranquilli. Se perfino un giudice, malvagio, ascolta una donna, anche solo per togliersela dai piedi, come potete pensare che Dio non ascolti il vostro dolore? Piuttosto pregate e preoccupatevi di mantenere salda la vostra fede”. Scriveva il grande teologo luterano Bonhoeffer: «Dio esaudisce sempre: non le nostre richieste, le sue promesse».

Uno dei cardini della preghiera è questo: lasciarsi amare da Lui. Dio conosce il nostro cuore, inutile riempire la nostra bocca di parole: lasciamo che il cuore si riempia dal Suo amore. Nel linguaggio corrente la preghiera sovente è sinonimo di “domanda” e, in effetti, gran parte è dedicata a chiedere. Il problema non è cercare “momenti di preghiera” che probabilmente non arriveranno mai, ma fare della vita una preghiera, fare del lavoro, dello studio una preghiera. La preghiera, come l'amore, non sopporta il calcolo.

Questa è l'unica parabola, che termina con una domanda. In mezzo alle mille domande che rivolgiamo a Lui, una la rivolge a noi: «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Questa domanda riguarda l'oggi e non solo la venuta finale. Interessante: non ci chiede se troverà l'amore, la religione, la Chiesa, le parrocchie ma la fede perché per Gesù la fede è il primo mezzo di salvezza.

«La preghiera è il respiro della fede» ha detto Papa Francesco: pregare è una necessità, perché se smetto di respirare, smetto di vivere. Sia questo il nostro programma: fermiamoci e lasciamoci amare nella preghiera. Pregare non è altro che aprire la porta e lasciar entrare Dio nella nostra vita.

                                                                                                                                                                                              don Franco Bartolino

Il brano evangelico di questa domenica, la guarigione dei dieci lebbrosi, è una epifania di particolare rivelazione in cui Gesù manifesta la sua signoria sul male e dunque la sua identità di Messia. Ci sono alcuni particolari del racconto dell’evangelista Luca, che ci permettono di raccogliere tutta la ricchezza del messaggio che contiene. Anzitutto il numero delle persone guarite, ben dieci, a differenza degli altri evangelisti che ci parlano della guarigione di uno o due lebbrosi.

Così tanti lebbrosi insieme ci rimandano al fatto che, secondo la Legge di Mosè, coloro che erano colpiti dalla lebbra dovevano starsene fuori dai villaggi e dalle città, in particolare per evitare ogni contagio, ma anche per segnare una distanza e una sorta di “condanna sociale”.

La malattia era ritenuta sostanzialmente una punizione di Dio e per questo sanzionata anche con l’espulsione dalla comunità. Dieci però è anche il numero della pienezza, quei dieci lebbrosi cioè rappresentano l’umanità intera, bisognosa di guarigione o meglio di “purificazione”, cioè di quella condizione che consentiva di entrare in relazione con Dio, di accedere al Tempio e alla vita religiosa, oltre che sociale.

Per questo solo il sacerdote poteva sancire l’avvenuta guarigione ed è questo il motivo per cui il Signore Gesù, accogliendo la loro invocazione di pietà, li invita ad andare proprio dai sacerdoti.

Ora, mentre i lebbrosi sono in cammino, avviene la guarigione, ma solo uno di loro, uno straniero, sottolinea l’evangelista, torna indietro per ringraziare e per lodare Dio.

È chiaro l’intento nel sottolineare che si tratta di uno straniero, ma questo ci fa riflettere su un altro aspetto, infatti Gesù gli chiede: «Gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».

 E alla fine conclude con un’affermazione forte: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 Dunque tutti hanno ottenuto la guarigione, uno solo la salvezza, a motivo della propria fede, ma si tratta di uno straniero. Chi dunque sa “vedere” l’opera di Dio e sa davvero “fare eucarestia”, cioè rendere grazie? Proprio colui che era considerato lontano da Dio perché straniero.

 In realtà questa “manifestazione” del Signore rivela che Dio non esclude nessuno e a tutti è possibile riconoscere, per fede, la sua opera nella propria vita. Anche a ciascuno di noi il Signore ripete: la tua fede ti ha salvato!

                                                                                   suor Annafranca Romano

 

 

Davanti alla realtà che stiamo vivendo sembra proprio che la Liturgia di questa Domenica ci presenti le domande  e le preghiere di tutti noi, attraverso la voce del profeta Abacuc (Ab 1,2-3;2,2-4): « Fino a quando, Signore, implorerò aiutoe non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!»e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?
Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese».  

Ma ancora  il Signore ci ricorda che il cristiano non è mero spettatore della Storia, anzi, proprio perché  cristiano deve “rimboccare le vesti e metterci  a servizio” del Regno (cfr. Lc 17,5-10) che tutt’ora soffre violenza in questo mondo violento. E non è da cristiani il piangersi addosso, poiché la Chiesa è un piccolo gregge o un semplice granellino di senapa, no! La fede ci dice che le promesse di Dio nella Storia, gravida del Suo Regno, si compiono sempre e non si inquadrano nei  calcoli umani che si lasciano impressionare solo quando vedono grandi risultati.

La fede della Chiesa e nella Chiesa è qualcosa di più grande perchè è dono dall’Alto, è forza dello Spirito, è speranza creatrice di un mondo in costante gestazione. «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette,
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».

Ecco perché anche Paolo ricorda a Timoteo (cfr. 2Tm1, 6-8.13-14) e ad ogni credenti, la necessità di “ravvivare il Dono di Dio senza vergognarci di rendere testimonianza” ,  che è Lui, l’Unico Signore della Storia, anche se non sono pochi i signori nella Storia che si credono di essere dio.

Come servi inutili, perché sappiamo che tutto è Dono, chiediamo umilmente e saggiamente a Gesù che aumenti la nostra fede e custodisca la nostra speranza, affinché, con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi,  possiamo darci da fare per sprigionare l’Umanità rigenerandola con “la fede e la carità che sono in Cristo”.

 «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

Il capitolo sedici del Vangelo di Luca, è dedicato al problema dell'uso della ricchezza. Gesù si rivolge ai discepoli con una parabola imbarazzante: parla di un amministratore, un padrone e una truffa con tanto di elogio del truffatore. 

L'amministratore non si è rassegnato e di fronte all'incubo di perdere lo status sociale acquisito, ricorre a un meccanismo finanziario che lo penalizza temporaneamente, ma che gli permette di sanare i bilanci e di mantenere l'incarico. Davanti a un problema, ha trovato una soluzione creativa: rinuncia, al proprio guadagno pur di salvare il posto. «Il padrone lodò quell'amministratore disonesto». Questa frase, a ben pensarci, è evangelicamente senza senso. 

Nel momento in cui ha sbagliato, si accorge degli altri e li aiuta. Ecco la soluzione creativa: farsi degli amici che lo possano aiutare quando ne avrà bisogno. Quando qualcosa non funziona, è inutile insistere, illudersi, bisogna semplicemente cambiare e davanti ad una situazione difficile, troviamo una soluzione creativa, invece di perdere tempo a piangerci addosso. 

Gesù non sta proponendo quest'amministratore come modello di disonestà, ma come esempio di astuzia. Sul finale, però, un'amara constatazione: «I figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce». Il discepolo dovrebbe avere la stessa energia, passione e ingegnosità dell'amministratore per annunciare la bella notizia. 

Gesù stesso commenta la parabola: «Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». E saranno proprio questi amici che ci accoglieranno nella casa del cielo. In questo sta la grandezza dell'amministratore: rinunciare ora a qualcosa per investire nel suo futuro. 

L'amministratore fa verso i debitori ciò che Dio fa verso l'uomo: rimette i debiti. Certo, l'amministratore è misericordioso per necessità, per furbizia, Dio invece no, Egli pone sempre al primo posto la felicità dell'uomo, non guarda alla mia fedeltà ma alla mia felicità. 

Su di noi

Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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