Questa parabola nel corso dei secoli è stata letta così: “Metti a disposizione i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità e non seppellirle”. Questo aspetto è vero, ma il suo senso è molto più profondo. Qual è l'elemento che fa la differenza tra i primi due servi e il terzo? La paura! I primi due sono coraggiosi, generosi, concreti; riconoscono la grande fiducia del padrone, ma il terzo servo ha paura e sotterra tutto; vive nel terrore e si accontenta di restituire il talento conservato.
Ci sono tre paure che spingono il terzo uomo a seppellire il proprio talento. Il primo è la paura degli altri e di quello che potrebbero dire di lui. Il secondo motivo è la paura di Dio: “Signore so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra” (25,25). Il terzo motivo è il pensiero della sicurezza. Quest'uomo ha paura di sbagliare, non vuole fare errori, ma proprio perché non li vuole fare, fa l'errore più grande. Non si può vivere pensando di non sbagliare mai.
Gesù ci invita, invece, a prendere consapevolezza e coscienza delle nostre risorse e che prendiamo la forza e il coraggio per agire, per osare e rischiare. Il più grande pericolo nella vita non è di sbagliare ma di non vivere. E come si vince la paura? Vivendo! Tutta questa paura che frena e rende dimissionaria la nostra vita cristiana, dipende soprattutto dall'idea di Dio che custodiamo nel cuore.
Le ultime domeniche dell’anno liturgico ci orientano verso le realtà escatologiche attraverso tre parabole: le dieci vergini, i talenti e il Figlio dell’uomo che torna alla fine dei tempi.
La parabola odierna è presentata come manifestazione del Regno di Dio: è un richiamo alla conversione del cuore, a non considerare il giudizio come l’atto finale della storia, ma a ricordarci che il Regno è già in mezzo a noi e che alla fine dei tempi avverrà solo la proclamazione di ciò che, giorno per giorno, scegliamo nella nostra vita rispetto all’olio per le nostre lampade, ai talenti ricevuti, al prossimo che ci è affidato… Tra le righe del vangelo di questa domenica intravediamo la delusione per il mancato ritorno del Signore, da parte della prima comunità cristiana, a cui l’evangelista risponde invitandola a fissare lo sguardo sul vero nocciolo: come prepararsi alla sua venuta e vivere l’attesa nella certezza che verrà, anche se non sappiamo come e quando.
La parabola ha come sfondo un banchetto di nozze, come protagonista Cristo, lo sposo e le dieci vergini, immagini della Chiesa, la comunità dei convocati a uscire incontro allo Sposo. La metafora delle nozze è una tra le più ricorrenti nell’AT e il brano si rifà alla prassi nuziale ebraica; il corteo della sposa è rappresentato da dieci vergini.
Cinque sono stolte perché non hanno previsto il ritardo dello sposo, non hanno preso abbastanza olio e durante l’attesa, invece di andare a provvederne, si sono addormentate. Le sagge portano con sé l’olio, ma a prima vista non sono diverse da quelle stolte, perché anch’esse si addormentano. Ad ognuna di loro è data una grazia, di cui alla fine dovranno rendere conto; la lampada è il segno della fede vigilante, mentre l’olio è il vero segno di differenza: nella Bibbia è espressione di ospitalità e intimità, ma anche simbolo messianico.
L’olio è il segno delle opere giuste, che permettono di avere accesso al Regno di Dio e nel contesto della parabola sono simbolo di perseveranza fino all’arrivo dello Sposo. Infatti, non basta essere invitati al banchetto, occorre anche essere sapienti, alimentando l’olio dell’impegno.
La parabola ci presenta il tardare dello Sposo utilizzando lo stesso verbo del padrone di casa che non arriva, per sottolineare il tempo lungo dell’attesa e la sorpresa di una venuta imprevedibile. Tutte le vergini “si assopiscono”, allusione alla morte, ma vengono destate dal grido, al termine della notte, che annuncia finalmente l’arrivo dello Sposo. Le vergini “si destano” – è il verbo della resurrezione di Cristo –, sono resuscitate e preparano le lampade.
La resurrezione diviene così determinante nella separazione delle vergini. Le stolte chiedono l’olio a quelle sapienti, che rispondono con un secco no! Apparentemente sembrano mancare di carità, in realtà manifestano l’impossibilità di prestare il “personale” – l’amore, la passione, il desiderio…– a qualcun altro.
Le vergini sapienti hanno alimentato giorno dopo giorno la lampada del cuore con l’olio dell’amore, un amore fedele, capace di aspettare senza spegnere l’attesa. L’olio è stato dato a tutte, ma la stoltezza delle vergini è nella loro incapacità di amare e di attendere l’amato, tenendo insieme presente e futuro.
La parabola è raccontata come immagine di ciò che avverrà alla fine, ma anche per mostrare ciò che avviene quotidianamente nella nostra storia terrena, in rapporto al desiderio del cuore di godere pienezza, perché è nella storia terrena che noi giochiamo il desiderio del cielo. L’apice della parabola è proprio la vigilanza, l’attenzione del cuore a far convergere sul vero obiettivo i desideri del cuore perché possa trovare pienezza.
Ed ecco la conclusione che riprende tutto il discorso escatologico: “vigilate perché non conoscete né il giorno né l’ora”, per questo occorre lavorare con impegno instancabile, facendo splendere attraverso le nostre opere buone l’amore di Dio per il mondo.
Siamo in tempi difficili, come si osa dire, c’è un nemico che ci insegue, ci vuole dividere, sconfiggere, uccidere… proprio come ai tempi della comunità del libro dell’Apocalisse, e proprio in questo libro, si incontrano le più alte vette della speranza, una speranza che ci fa ‘vedere’ nella fede ciò che gli occhi della carne non riescono, una realtà già in atto, già presente.
Allora il primo nemico che veramente dobbiamo sconfiggere è la paura del soffrire, la paura della morte, perché la nostra vita è già piena di una speranza certa:“Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello”(Ap 7,13-14).
E’ di questa speranza che il cristiano vive, pronto ad affrontare qualsiasi genere di sofferenza, perché è carico di una certezza: “Siamo figli di Dio, e lo siamo realmente!” dice Giovanni (1Gv 3,1). E anche qui, è la stessa speranza che già ci purifica, perché è l’amore del Padre che ci purifica donandoci il Figlio Suo. ‘E' allora quest’Amore Persona, Cristo Gesù, accolto con cuore semplice e sincero, con i sentimenti dei poveri del Vangelo, che ci innesta nella moltitudine dei beati. Ma facciamo attenzione: la moltitudine dei Beati di cui parla Gesù è il piccolo gregge che lo segue passo a passo, Lui. il Povero per eccellenza, il Mite, l’Umile, il Misericordioso, Lui la nostra Pace, Lui perseguitato a causa della giustizia, Lui che ha fame di salvare tutti, Lui nel quale possiamo vedere Dio( Mt 5,1-12).
Seguendo Lui offriamo a questo mondo, assalito da tanti mali, l’esperienza del Regno, non solo come costruttori di pace ma anche come restauratori della bellezza originale dell’inizio, ricapitolati tutti in Cristo, artefici della comunione con il Padre, con gli altri nostri fratelli e con tutto il Creato. Insieme aad esso, uniti alla moltitudine che già sono in cielo, cantiamo: “Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazia, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli! Amen!” (Ap 7,12).
“Paradiso in terra è l’uso moderato e saggio delle cose belle e buone, che la Provvidenza ha sparso nel mondo, esclusive di nessuno, utili a tutti” (S. Giovanni XXIII).
Gesù, in aperto contrasto con i devoti del tempo, distingue la Legge di Dio da quelle derivanti dalle tradizioni degli uomini e risponde alle provocazioni dei suoi interlocutori citando la bellissima professione di fede degli israeliti, lo “shema Israel”, la preghiera che ogni ebreo recitava al mattino e alla sera. Cosa è importante nella vita del fedele? Amare Dio senza misura. Amarlo con tutte le forze: al meglio delle proprie capacità, delle proprie possibilità e della propria esperienza. Gesù si affretta però a dire che in realtà ne esiste un secondo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso», ma che è simile al primo nel senso che questo non aggiunge nulla al primo, ma lo specifica. Si ama Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente, amando chi si fa a me prossimo. E Gesù incalza a specificarlo, perché il dottore della Legge, ossia ciascuno di noi, non s'illude che basti un cuore infiammato per Dio per essere uomini di Dio. Non è sufficiente osservare tutta la sua legge, per essere effettivamente suoi. Dio e il fratello sono posti sullo stesso piano. L'amore che scopriamo in noi è sufficiente per amare tutto e tutti perché l'amore non si divide ma si moltiplica e si amplifica.
Allora chi è il mio prossimo? Quello che ti si fa accanto, quello che incontri, quello che ti sorprende e che non ti saresti mai atteso. Gesù non aggiunge nulla di nuovo. Eppure dirà che il suo è un comando nuovo. Dove sta la novità? Sta nel fatto che le due parole fanno insieme una sola parola, l'unico comandamento: amare l'uomo è simile ad amerai Dio! Questa è la rivoluzione di Gesù.
Matteo ci propone una serie di dispute in cui i farisei, i sadducei e gli erodiani sottopongono Gesù alcune delle questioni più scottanti del momento. È chiaro che a nessuno interessa il Suo parere, vogliono solo trovare il pretesto per puntare il dito contro di Lui. Ma la risposta di Gesù è completamente disarmante. Gesù chiede una moneta. «Rendete a Cesare quel che è di Cesare». Cioè le realtà terrene hanno una loro autonomia, una loro logica interna, non c'è bisogno di coinvolgere Dio nelle decisioni che dobbiamo prendere. “Rendere a Cesare quel che è di Cesare” vuol dire innanzitutto servire, prendersi cura di quello che siamo soliti denominare il bene comune: impegnarsi cioè a fare il bene in questo mondo.
Cosa vorrà dire invece rendere a Dio ciò che è di Dio? Se nel caso di Cesare tutto è partito da un'effige su di una moneta, qual è la moneta che riguarda il mondo di Dio? La sua creatura, l'uomo, che è l'immagine di Dio! Rendere a Dio ciò che è di Dio vorrà dire far in modo di restituirgli le sue creature nella loro piena dignità.
In una parola, a noi cristiani non è dato disertare la terra in nome di un fantomatico “cielo”, ma ci viene chiesto di trasformare la terra in un cielo. Insomma a Cesare spetta una cosa, la moneta. A Dio spetta la persona, con tutto il suo cuore, con tutta la sua mente, con tutte le sue forze.