Per essere cristiani ci vuole coraggio, coraggio di scegliere la stirpe della pace e coraggio di rimanere in essa, andando controcorrente, esultando alla presenza di Dio (1ª Lettura).
Per essere cristiani ci vuole il coraggio di lasciarsi prendere dalla vera gioia, conseguenza di quella libertà donata dallo Spirito Santo. Consegnare a Lui il timone della propria vita, uscendo da tutte quelle forme false di autoreferenzialità, dall’autosufficienza, dalle false indipendenze che ci fanno schiavi di noi stessi e, che prima o poi, non riusciamo più a sopportare (2ª Lettura).
Per essere cristiani ci vuole il coraggio di frequentare la scuola di Gesù, scommettere su se stessi, credendo che è possibile vivere come ha vissuto Lui, coscienti che la pace ha un prezzo alto. Per essere cristiani ci vuole il coraggio dell’umiltà, l’unico modo per andare incontro all’altro, aprendo strade, costruendo ponti, liberando gli oppressi. Per essere cristiani ci vuole il coraggio di ritornare sempre da Gesù: l’Unico riferimento di Vera Pace, di Vera Libertà, di Vera Gioia.
I veri cristiani, quelli che appartengono a Dio, arrivano così… a passi lenti, nell’umiltà, nella mansuetudine, nella pace. Disarmati, indifesi, liberi, carichi di quella gioia propria dei piccoli, di quelli che sanno di non competere con nessuno, esenti da ogni tipo di rivalità, esclusi dai grandi e presuntuosi. Quelli che portano il giogo di Gesù, perchè proprio amati da Lui, disponibili alla sua scuola di Maestro unico, che non cerca successi, retribuzione, competizione.
Gesù è il Maestro unico che non ritiene nulla per se stesso, che condivide tutto, incluso il Suo Spirito, che continua ad accompagnare quelli che sono i Suoi.
L’essere umano è un essere ‘in potenza’: dal gembo materno fino all’ultimo giorno della sua esistenza tende alla crescita, allo sviluppo, alla maturità, alla pienezza. Come c’è una maturità umana e spirituale, così c’è la maturità nell’amore e nella sequella del Signore.
Gesù ci invita a valutare la maturità dell’amore che c’è in noi; ci invita a fermarci per capire su quale sicurezze manteniamo i nostri passi, quale orizzonte attrae il nostro sguardo:
“Chi non prende la sua croce e non mi segue...”
Ecco il punto: noi, rinati in Cristo Risorto (2ª Lettura), attingiamo la maturità del nostro essere e la dignità di discepoli solo se andiamo ‘dietro’ a Lui. Una chiamata che assume una posizione precisa e che porta alcune esigenze altrettanto precise: attenzione (equivalente a amore); occhi fissi ‘in Lui’ per non perderlo di vista, per andare dove Egli va, per fare quello que Egli fa, per amare come Egli ama. “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me,
chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me...” Solo l’amore che ha attinto la maturità del donarsi nella libertà è capace di tagliare ‘il cordone ombelicale’ delle sicurezze familiari per assumere e abbracciare l’insicurezza della Croce, liberi nel fidarsi solo dell’obbedienza al Padre, come Gesù.
Solo l’amore libero e maturo è capace de accogliere i piccoli, i giusti e i profeti del Regno nella certezza che il Padre continua a sostenere il mondo proprio attraverso di essi: immagine viva della Sua Presenza.
Solo nell’amore libero e maturo, il discepolo fedele è capace di fidarsi della Parola, che non vien mai meno, intravedendo in essa quella fecondità di vita che va al di là di qualsiasi ricompensa umana, perchè è già proiettata verso il futuro di Dio che non tramonta mai.
In questi tempo abbiamo proprio bisogno di sentircelo ripetere: “Non temete”. Forse è una delle affermazioni più ripetute in tutta la Scrittura, qualcuno dice addirittura per 365 volte. Non ne sono sicuro, ma è molto suggestivo pensare che ogni giorno il Signore ce lo ripeta.
Lui ci conosce, sa quali sono le nostre paure. Lui conosce le ombre che si allungano come tentacoli sul nostro cuore. Ma il Maestro ci sussurra nuovamente: “Non temete”. Lui ci ama, siamo suoi. Nonostante le nostre debolezze e le nostre cadute. Ci avverte però: state attenti, vi mando come pecore in mezzo ai lupi (Mt 10,16). E i lupi più feroci sono quelli che si travestono da pecore, che belano per attirare la nostra attenzione e poi ci divorano senza pietà. Per questo dobbiamo essere prudenti come serpenti, senza perdere la semplicità delle colombe (Mt 10,16). Il Signore ci vuole saldi nella fede (Col 2,7) e stretti alla Parola di vita (Fil 2,16) per annunciare dai tetti quello che abbiamo ascoltato all'orecchio. È bellissima questa immagine dei tetti! La sua Parola non può stare chiusa ad ammuffire nelle sacrestie, dobbiamo uscire dai nostri profumati nascondigli e metterci in gioco. Si parla tanto di evangelizzazione, e va bene. Ma forse abbiamo dimenticato che il Vangelo è vivo e vuole stare in dialogo con gente viva, che lotta, ama, soffre, spera, piange, progetta, sogna. Il Vangelo non è una bella idea o una filosofia di vita. Il Vangelo è un corpo, è il corpo vivo di Gesù che ci mette in comunione con il Padre e ci manda verso i fratelli perché si scoprano figli amati. Coraggio, non abbiate paura. Lui è con noi. Sempre.
Celebriamo in questa domenica la solennità del Corpus Domini, ringraziamo il Padre per il grande dono del Corpo del Signore che dà vita alla nostra vita, che ci nutre e sostiene i nostri passi come è accaduto per il popolo d'Israele nel suo esodo attraverso il deserto, verso la terra promessa, costellato da insidie e difficoltà di ogni genere.
Anche il nostro cammino sulla terra è carico di insidie; il deserto di questo mondo, troppo spesso, ostacola il nostro andare; ma nutriti di questo celeste alimento, troveremo il vigore per procedere sicuri, nella certezza che il Signore Gesù, che si dona a noi nell’Eucaristia, ci rende forti e perseveranti nel bene.
Nel brano evangelico odierno ci dice chiaramente: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo.Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vitadel mondo».
Si offre come il pane disceso dal cielo, ma gli ascoltatori sono incapaci di riconoscere nel concreto la via di Dio che si sta rivelando. Il suo discendere dal cielo non indica semplicemente la sua provenienza, quanto piuttosto il movimento del suo abbassarsi per comunicare il suo amore. Gli uomini non amano abbassarsi, pensano sempre in termini di grandezza, dove il potente prevale sul debole. Gesù, invece, allude al suo abbassamento, perché è lì che risplende il suo amore.
L'Eucaristia è il Sacramento dell'amore. Gesù non poteva darci prova più grande del suo amore che donandosi a noi sotto le sembianze del pane e del vino. L’evangelista Giovanni sottolinea come il primo effetto del mangiare la carne del Signore non sia solo quello di dimorare in Lui, ma allude soprattutto al rimanere in questo movimento di discesa per essere testimoni dello splendore del suo amore in mezzo agli uomini.
Essere nel Signore significa essere assunti nella dinamica di rivelazione dell’amore di Dio al mondo, per cui la vita stessa non può essere vissuta che a servizio dello splendore di quell’amore. Nutrirsi di Cristo e vivere di lui significa rinunciare a guidare la propria vita. Occorre mettere Lui al primo posto e non averlo solo come modello da imitare.
La presenza reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati – sottolineata dalla festa di oggi- è una presenza che vuole trasformarci in Lui, assimilare la nostra vita alla sua e darci la capacità di fare comunione tra noi.
“Dobbiamo diventare anime eucaristiche…vivere di Gesù: la comunione del mattino deve lasciarci ed accenderci la brama dell’amore, del sacrificio…dobbiamo adorare nel silenzio, confessandogli la nostra nullità…Egli solo ci nutre col latte celeste, capace di rinforzare la nostra debolezza e farci crescere nella grazia…Lui dobbiamo ascoltare, il Maestro dolce e sapiente, che parla nel fondo dei cuori, che ci spinge a virtù, che ci fa comprendere che ovunque Egli è, là è la sua croce, croce dolce e soave a chi l’ama, croce lieve a chi si fa aiutare da Gesù a portarla.” (M. Ilia Corsaro).
In questi mesi abbiamo fatto l'esperienza della nostra fragilità e precarietà. Eravamo convinti di essere potenti e poderosi, ma un virus microscopico ci ha messi in ginocchio. Lo ripeto anche questa domenica: da tutto questo c'è qualcosa che dovremmo imparare. Forse ad essere più umili, ad abitare la terra con leggerezza, senza distruggere, senza sentirci super eroi.
Adamo ed Eva volevano prendere il posto di Dio, e hanno dovuto coprirsi con una foglia di fico. E noi, ingenui e presuntuosi, che ci sentivamo padroni dell'universo, abbiamo dovuto coprirci con guanti e mascherine. Nonostante tutto questo, Lui non ci abbandona; anzi, compie la sua promessa: “Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi”.
Nonostante tutto quello che abbiamo fatto per tenerlo lontano, negarlo e inscatolarlo, Lui ci dona niente meno che il suo Spirito. Forse vale la pena ricordare che lo Spirito Santo è il respiro di Dio e, se noi lo riceviamo, significa che Lui respira in noi, vive in noi, si muove e parla in noi. La Pentecoste segna proprio questo passaggio nella vita della Chiesa: non solo Dio è in mezzo a noi, a Lui è in noi. Paolo descrive molto bene cosa significhi essere abitati da Lui: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
Allora vivere la Pentecoste significa lasciar vivere Lui in me, lasciare che Lui prenda possesso della mia vita. Ed è quello che è successo agli Apostoli: appena lo Spirito Santo è disceso su di loro, sono schizzati fuori dal Cenacolo parlando lingue nuove e tutti rimasero sorpresi. Il primo segno dello Spirito è l'universalità.
La Chiesa nasce per il mondo, per schizzare fuori dai cenacoli, dai sepolcri, dai bei nascondigli profumati di incenso, per percorrere le vie del mondo ed annunciare che vivere con Lui, o senza di Lui, non è per niente la stessa cosa. La Chiesa è sale, lievito, luce e seme che si deve mischiare con il mondo, che deve amare il mondo, come Dio che tanto amò il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16).