Il testo evangelico della XXVIII domenica del Tempo Ordinario ci presenta l’ultima delle tre parabole rivolte contro i capi d’Israele e i sacerdoti in cui viene spiegato perché sarà loro tolto il regno di Dio; anche questa volta il racconto ha dell’inverosimile. Se nella parabola dei vignaioli omicidi, questi uccidono il Figlio del Padrone della vigna pensando di poter diventare loro stessi eredi, qui gli invitati alla festa di nozze reagiscono all’invito del Re con indifferenza.

La parabola appare come una sintesi della storia della salvezza. Dio Padre ha in mente una grande festa per l’umanità.

Di questa iniziativa si fanno portavoce molteplici figure: i patriarchi, i profeti, i sapienti. L’ostilità verso i servi fino alla loro uccisione è un accenno alla loro sofferenza. L’ultimo, il più grande dei servitori del Padre, è il Figlio stesso: anche lui sarà rifiutato ed ucciso.

Dio, però, non si scoraggia dinanzi al rifiuto dei primi che erano stati invitati e si lasciano sopraffare da altri interessi; essi, mancando di coerenza, sono sprovvisti della veste nuziale, fatta di costanza ed impegno.

Tutto il racconto è segnato da una specie di fallimento. Inutile risulta la fatica del re di preparare un banchetto sontuoso, vano il duplice invito dei servitori presso gli invitati, furiosa la sua reazione.

Questo insuccesso rappresenta una costante della relazione di Dio con gli uomini: da un lato la sua gratuità sorprendente, creativa, ripetuta, che non si ferma neppure davanti agli omicidi; che ritenta sempre nuovi incontri ed offre molteplici inviti.

Dall’altro coloro che si fanno portavoce di questo invito si trovano di fronte a rifiuti, violenze, incoerenze. E tuttavia devono sempre chiamare, invitare, sollecitare ad entrare. La missione della chiesa non è garanzia di successo, ma si fonda sulla bontà gratuita di Dio e deve aprirsi a tutti, senza calcoli e senza paure.

Per partecipare al banchetto si deve indossare una veste nuziale e la mancanza di questo abito diviene colpa e condanna. Numerose sono state le interpretazioni circa questa veste, ma sono applicazioni che rischiano di banalizzare il senso di tale richiesta. Si tratta, in realtà, della qualità della vita, che deve essere ricca di fede e di giustizia, di coerenza del cuore. Si tratta di dare forma a quello che Paolo chiama ”rivestirsi dell’uomo nuovo”.

La reazione così dura sia verso gli assassini dei servi, che verso questo commensale non vestito secondo i canoni giusti e la frase finale, vanno interpretate come un richiamo alla serietà della risposta che Dio si aspetta.

Il banchetto del Signore è un richiamo alla fraternità universale, merita del tempo ed una preparazione accurata, non si può improvvisare. L’invito a partecipare al banchetto e le conseguenze che mettono in moto il suo rifiuto, potrebbero rappresentare una sollecitazione a dare il giusto peso ad ogni cosa, a fare attenzione agli atteggiamenti da assumere nelle diverse situazioni della vita.

Il rischio di essere estromessi dal banchetto ci sembra esagerato, ma siamo noi a decidere se autoescluderci da una Presenza, che è l’anima della festa. Il testo ci invita a prendere sul serio la nostra vita e le opportunità che il Signore, quotidianamente, ci offre perché è lì che riceviamo l’invito, è lì che il dono della libertà sembra ritorcersi, drammaticamente, contro noi stessi

                                                                                              sr Annafranca Romano

Noi cristiani crediamo nel Dio Creatore, che nell’esplosione del Suo Amore ha dato forma a tutte le cose e si è specchiato nell’Umanità. L’Umanità non l’ha riconosciuto come Unico Dio; Dio ha chiamato il Popolo di Israele caricandolo di cura particolare in modo da essere “segno” della predilezione dell’Amore che salva e perdona. Ma il popolo di Israele, come gli altri popoli ha sprecato le cure amorose di Dio: “Che cosa dovevo ancora fare alla mia vigna che io non l’abbia fatto?”... “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,4.7). È stato sprecato l’Amore di Dio?

No, assolutamente no, perchè l’Amore non si stanca mai! Anzi, dinanzi all’indifferenza e alla disobbedienza, l’Amore va all’ultima conseguenza fino a perdersi. Ad ogni negazione, ad ogni sete di ingiustizia, di violenza... l’Amore di Dio si intensifica di più donando una volta per sempre il Suo Figlio. Egli dona tutto Se stesso, lasciandosi prendere dalle mani sporche di sangue degli uomini malvagi, presenti nel corso di tutta la Storia dell’Umanità (Mt 21,33-43).

Sono passati più di duemila anni... è stato sprecato l’amore di Gesù? Assolutamente no! Perché l’amore vince sempre, come afferma e testimonia Paolo (Fil 4,6-9) e tutte le schiere di testimoni nel corso di questi due millenni. L’Amore vince sempre e nel migliore dei modi possibili. Vince con il silenzio, con la pace inquieta e operosa, con la giustizia a prezzo di sangue donato, non rubato; con le preghiere, suppliche e ringraziamento non solo per chi crede, ma anche, e soprattutto per chi non crede. L’Amore o salva tutti o non salva nessuno. E nel rispetto di ogni scelta e di ogni libertà, l’Amore attende perché è l’Unico che rimane alla fine del cammino!

Io credo all’Amore di Dio. Credi pure tu? ...Allora non risparmiamo quest’amore versato nei nostri cuori, perché come un torrente, non può essere contenuto e non torna mai indietro.

                                                                                                                              suor Maria Aparecida Da Silva

Nel Vangelo di oggi (Mt 21,28-32), ventiseiesima domenica del tempo ordinario, Gesù ci racconta una parabola che parla di due figli che di fronte alla volontà del Padre rispondono in modo differente.

Il primo esprime rispetto e apparentemente ascolta le parole del padre, ma non ha intenzione di attuarle. Il secondo sembra essere più sincero; comunica al padre di non condividere la sua volontà, ma pentitosi (v.30) della risposta, obbedisce.

Due  diversi modi di reagire, due diverse risposte: un sì detto con il cuore e un sì detto solo a parole. In questi due figli possiamo esserci  tutti noi con tutte le nostre  risposte alla vita e a Dio.

Ci sono i tanti sì detti con superficialità, per fare “bella figura” e  poi sconfessati dalla realtà. e poi ci sono quei sì, detti con il cuore, detti forse con sofferenza, detti pensandoci un po’ ma che poi ci hanno dato vita.

La decisione di fare la volontà del padre, viene presa dal secondo figlio con un pentimento che Gesù sottolinea chiedendo poi ai presenti secondo loro chi dei due ha fatto realmente la volontà del Padre?

In questo brano sembra che la parola chiave possa essere pentimento, un pentimento che deve nascere nel cuore e che porta alla fede. Gesù ci invita a non coltivare la presunzione di ritenerci giusti, né tantomeno di avere una dipendenza ossessiva alla legge che può portarci a ritenersi migliori degli altri, ma avere la consapevolezza di essere peccatori ci mette sulla via della conversione.

L’unico che ci può rendere giusti e santi è solo Dio.

Chiediamo al Signore Gesù, l’unico che è veramente Figlio, di insegnarci a compiere con amore la volontà del Padre, di saper aderire incondizionatamente ai suoi inviti senza opporre i nostri calcoli e senza ritornare sui nostri passi. Chiediamogli il dono della conversione per ritrovare il senso del nostro andare e camminare sulle vie che Lui ha preparato per noi.

                                                                                                                 suor Assunta Cammarota

Il Vangelo di questa domenica, presenta una parabola sul tema della giustizia di Dio, sottintendendo che dovrebbe essere il modello anche per noi. Ne è illuminante premessa la prima lettura di Isaia, in cui parlando a nome del Signore il profeta dichiara: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie".


            È la parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna. Con i primi, ingaggiati all'alba, il padrone concorda la paga di un denaro per il lavoro della giornata; ne chiama poi altri nelle ore successive, sino alle cinque del pomeriggio, impegnandosi a dare loro il giusto compenso. Finita la giornata, dà ordine al fattore di dare a tutti la paga, cominciando dagli ultimi. Tutti ricevono un denaro, e i primi si lamentano: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo!"

            Il padrone allora spiega a uno di loro: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Se voglio dare altrettanto agli altri, non posso disporre del mio come voglio? Sei forse invidioso perché io sono buono?”
Nel padrone della parabola è facile riconoscere Dio, e negli operai ognuno di noi, chiamati a "lavorare" per lui, a vivere in sintonia con lui.

            A quanti, allora come oggi che trovano ingiusto tale comportamento, con la parabola Gesù vuole far comprendere che quella della giustizia non è la regola più alta della vita. Il padrone della vigna non viola la giustizia: dà ai primi quanto pattuito; ma la supera, con l’amore.


don Franco Bartolino

La Liturgia odierna mette in luce un aspetto fondamentale della carità cristiana: il perdono. Gesù, conoscendo quanto sia difficile alla natura umana metterlo in pratica, propone l'esempio di Dio Padre, che perdona sempre e con generosità il peccatore che si pente.

Gli ebrei dell'Antico Testamento già conoscevano il dovere del perdono. Nella prima lettura è riportato uno dei testi più significativi in cui viene indicata al popolo la necessità di perdonare i propri fratelli come condizione per poter ricevere il perdono di Dio: «Perdona l'offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore?» (Sir 28,2-3).

Ciò che non era chiaro ai Giudei era la misura del perdono: quante volte bisognava perdonare al prossimo? Su questa base possiamo comprendere la domanda di Pietro a Gesù. L'Apostolo propone di perdonare un numero di volte che gli sembra enorme: fino a sette volte. La risposta di Gesù, invece, va oltre ogni limite e misura: bisogna perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22), ossia sempre.

Per rendere più comprensibile il suo insegnamento, Gesù lo illustra con la parabola dei due debitori. Un servo era debitore verso il suo padrone di una somma ingente. Non avendo come pagare il debito, supplica il padrone di aver pazienza, di dargli tempo, pur sapendo che la vita intera non sarebbe bastata per risarcirlo. Il padrone, mosso a compassione, non si limita a concedere una proroga al pagamento, ma glielo condona totalmente. La lezione è chiara: se Dio non interviene a perdonarci, da soli non riusciremo mai a pagare i nostri debiti e a conquistare la salvezza eterna.

 La parabola racconta, inoltre, che all'uscita il servo trova un collega che gli doveva dare solo una piccola somma. Dimenticando la grazia ricevuta dal padrone, lo afferra per la gola e gli dice: «Paga quel che devi!».            

 E, nonostante questi lo supplicasse di avere pazienza, «non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito» (ivi, 30). L'incredibile durezza di cuore del servo che, per un’esigua somma di denaro, fa gettare in prigione un suo collega, fa intuire una verità profonda: l'uomo non sa perdonare i piccoli torti ricevuti dal suo simile e dimentica facilmente i grandi debiti che Dio gli ha condonato.

La lezione fondamentale della parabola la troviamo nelle parole proferite dal padrone al servo malvagio: «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?».

La motivazione profonda per cui dobbiamo perdonare il prossimo è che Dio ha perdonato a noi, tenendo presente che il suo perdono non conosce condizioni, non si ferma davanti a nessun peccato e non esclude nessun peccatore.  Anche il nostro perdono deve estendersi a tutti, perfino ai nemici e a coloro che ci odiano. Dobbiamo perdonare, imitando Gesù che, mentre sulla croce soffre il martirio dell'umana ingratitudine, si rivolge al Padre e lo supplica di concedere il perdono ai suoi crocifissori, perché non sanno quello che fanno.

Il senso della parabola è che Dio perdona gratuitamente il peccato a chi glielo chiede, dimostrando una benevolenza assolutamente disinteressata. L’uomo deve imparare a perdonare i propri fratelli perché per primo ha fruito del perdono di Dio.

Non c’è relazione umana, per piccola che sia, che non possa trovare un miglioramento attraverso la riconciliazione e il perdono. La spirale della violenza invoca l’amore cristiano.

Il sottofondo di comprensione della parabola è la fede, la coscienza dell’alleanza con Dio e ci viene rivelata proprio nel perdono del peccato, nella capacità di vivere in comunione con Lui.

Trasformaci, Signore, in canali sempre aperti, che ricevono e donano; rendici come fontane, capaci di lasciar prendere a coloro che chiedono. Che l’amore ricevuto ci renda capaci di amare.  Che la misericordia ricevuta ci renda capaci di misericordia. Che la salvezza ricevuta ci renda uomini e donne capaci di far gustare il perdono. Amen.                                                                                                                                                 

  sr Annafranca Romano

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