Questo brano del vangelo è un meraviglioso elogio alla piccolezza. Il soggetto del discorso di Gesù è una realtà grande, ampia, illimitata ma bisogna guardare il tutto a partire dalla piccolezza. Vogliamo comprendere il Regno di Dio? Guardiamo tutto ciò che è piccolo, crediamo al miracolo del silenzio e della notte, mentre l’uomo dorme, abbandoniamoci ai ritmi della terra e della natura, non abbiamo fretta dei risultati e coltiviamo la speranza e la fiducia nel piccolo seme gettato. La vera opera del contadino, la più difficile ma anche la più fruttuosa, è l’attesa nutrita dalla sua fiducia nella terra e nella natura certo di sperimentare la gioia del raccolto. L’uomo evangelico infatti è colui che intuisce i tempi della sua parte di responsabilità e del suo lasciare spazio all’opera di Dio. Nella logica di Gesù non si è mai solo protagonisti e non si è mai inoperanti. Il segreto è comprendere e trovare l’equilibrio e l’armonia tra queste realtà: semina, notte e silenzio, mietitura.
Il regno di Dio è dunque una realtà in “divenire” non è solo nel seme e non è solo nel raccolto, ma nel prezioso tempo che vi intercorre, mentre si costruisce e si attende in maniera paziente e operosa. Non importano i tempi della realizzazione del regno di Dio, conta che vi siano seminatori pazienti del vangelo, non affamati di risultati ma zelanti nell’annuncio e certi che la “sua parola non ritorna indietro senza frutto”. Questa pagina del vangelo di Marco ci invita ad una responsabilità operosa, a diventare costruttori del Regno gettando senza sosta il seme del vangelo. I semi del “mondo” sembrano molto più efficaci, con risultati immediati, senza tempi di attesa, senza la fatica, senza spazi in cui poter nutrire la fiducia e la speranza, ma purtroppo spesso non sono portatori di vita e di frutti, piuttosto riempiono di delusioni e svuotano di senso.
In questo mondo alla ricerca della grandezza, il vangelo è il seme più piccolo e invisibile ma sappiamo che proprio il mondo in cerca di grandi “segni” potrà un giorno rifugiarsi all’ombra di questo albero dai rami grandi e accogliente. Al centro di questa pagina evangelica troviamo la domanda di Gesù: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?”
Ci coinvolge, interpella la nostra idea di Regno di Dio e propone la sua creando una spaccatura e, nello stesso tempo, aprendo un varco. La logica del Regno necessita di un nuovo sguardo sulle cose e sul mondo, sulla vita e su noi stessi. Gesù ci dice che possiamo anche “dormire” liberandoci dall’ansia dell’indispensabilità e dell’affanno per le cose di Dio, possiamo dormire per vivere quell’abbandono necessario che rende possibile l’intervento di Dio nel cuore della terra e nel cuore degli uomini, dormire per non opporre resistenza alla grazia di Dio e per essere poi “pronti “ al tempo della mietitura.
Nel brano evangelico di questa domenica ci viene presentato Gesù nei primi momenti della sua vita pubblica: Egli ha guarito dei malati e scacciato un demonio e la folla ha iniziato a seguirlo e ad ascoltarlo con attenzione. Egli, però, ha operato tutto ciò in giorno di sabato, suscitando la reazione degli scribi che lo accusano di esercitare la sua opera nel nome di Satana contro la legge.
Gesù smaschera l’assurdità di tale accusa, poiché Satana non può ribellarsi a se stesso. Sembra inverosimile, eppure spesso è la nostra esperienza: essere tanto ciechi da non saper discernere i doni di Dio che ci fanno vivere. Pretendiamo segni, senza riconoscere quelli che ci vengono già dati. Questa è la bestemmia contro lo Spirito: credere alla menzogna del serpente anziché allo Spirito, che è il compimento di tutti i doni di Dio per la nostra vita. Questo peccato, aggiunge Gesù, ”Non sarà perdonato in eterno”. Il problema non è di Dio, ma nostro: se non riconosciamo il suo perdono là dove ci viene offerto, non potremo trovarlo altrove.
Occorre cercare Gesù e il suo perdono, non rimanendo fuori, come inizialmente fanno sua madre e i suoi fratelli, ma facendo nostro il suo modo di ascoltare la Parola del Padre, di amare la sua volontà, di riconoscerla come desiderio di salvezza e di bene per noi e per tutti. Rimanendo dentro questo spazio, che è quello della relazione intima con Gesù, sapremo rispondere alla domanda di Dio: ”Dove sei?”(Gen3,9) e potremo stare davanti a Lui nella verità, senza vergogna, perché ci sapremo amati, perdonati, salvati. Solo allora il veleno del serpente non ci farà più male e potremo vivere nella speranza e nella gioia dello Spirito. Affinché tutto ciò si realizzi in noi, occorre un lungo e faticoso allenamento, per conquistare una vera libertà interiore, non cadere schiavi degli istinti e orientare gli affetti verso il bene.
Occorre disciplina interiore per imparare ad amare e valutare con saggezza le scelte da compiere, rimanere sereni nelle contrarietà, guarire dai rancori e riconciliarci con tutti. Si tratta di purificare le energie di bene che ci portiamo dentro, di potenziarle ed orientarle verso un’umanità sempre più vera, più libera, più piena: l’umanità dei discepoli del Signore.
Nell’Eucaristia entriamo in un rapporto con Cristo più forte di quello che ci lega ai parenti con i vincoli di sangue. Se accettiamo di credere in Lui e di affidarci alla sua potenza liberatrice, ci verrà offerta la grazia di poter far parte della sua nuova famiglia e anche di noi, il Signore potrà dire:”Ecco mia madre e i miei fratelli …”. Il versetto che conclude il brano evangelico dilata i confini della famiglia di Gesù ben al di là e oltre la folla che gli sta attorno, perché offre a chiunque lo voglia, quindi anche a noi, la possibilità di farne parte, a condizione di “compiere la volontà di Dio”.
In questa domenica in cui contempliamo il dono del corpo e del sangue del Signore, l’evangelista Marco, ci presenta il racconto dell’ultima cena e ci invita a riflettere sul valore del dono di sé che il Signore Gesù ha fatto e continua a fare a tutti noi. L’insegnamento che il Maestro da ai suoi discepoli, e quindi anche a noi, è molto chiaro: siamo chiamati a condividere l’esistenza per creare la comunione che è il fine della nostra stessa vita. Il Signore Gesù dona se stesso aiutandoci a comprendere, ancora una volta, la bellezza della relazione che abbiamo con Lui e grazie a Lui; una relazione di alleanza nuova fondata sul cuore nuovo, su un cuore di carne e non più di pietra…. Questo ci apre alla dimensione dell’Altro e degli altri per vivere un’esistenza di comunione.
Vorrei, oggi, solennità del corpus Domini, evidenziarne tutta la bellezza con le parole di madre Ilia Corsaro, nostra fondatrice, che ha vissuto una vita veramente eucaristica; propongo alcuni suoi pensieri, tratti dai suoi scritti, perché credo che siano un alido aiuto anche per noi. Come possiamo dar significato profondo a questo sacramento? Ascoltiamo le sue esortazioni:
Adorare l’Eucaristia “Essere con Lui, vicino a Lui, potergli parlare senza che alcuno ci ascolti, stare raccolti vicino al Suo Altare e adorare così in un perfetto abbandono”.
Accogliere l’Eucaristia “Quel Pane di vita è cibo degli uomini errabondi, deboli, miserabili, ma che sostenuti da Lui, vivificati da Lui diventano i Suoi eletti, i Suoi prediletti”.
Nutrirsi dell’Eucaristia“Quando nella calma dello spirito, ricevi l’Ostia Santa, conservati nel cuore l’Ospite Divino Cui non è caro altro tabernacolo se non il cuore delle sue creature”.
Vivere l’Eucaristia “Dobbiamo diventare anime eucaristiche. Dobbiamo viver di Gesù: la comunione del mattino deve accenderci la brama dell’amore, dell’unione, del sacrificio”.
L’Eucaristia da noi celebrata e adorata non è però un rito magico… il Tabernacolo in cui si conserva il corpo del Signore non è la lampada di Aladino da sfregare per ottenere la realizzazione dei propri desideri o necessità, ma è la proposta di Cristo per noi che richiede assenso di fede e un’adesione piena alla morte e Risurrezione del Signore. Accogliere l’Eucaristia in noi, significa fare anche noi come Lui che ha dato tutto, con piena disponibilità per tutta l’umanità.
“Noi dobbiamo diventare anime eucaristiche”, ripeteva la nostra fondatrice, cioè, dobbiamo sentire sempre forte l’urgenza di metterci al servizio, di condividere beni spirituali e materiali, di vivere in concordia fra noi, amandoci gli uni gli altri per far risplendere la gloria di Dio sul mondo. L’amen che pronunciamo alle parole: “Il corpo di Cristo”, deve spingerci a tutto ciò; dobbiamo quindi accostarci al banchetto del Signore in piena responsabilità e coscienza. Quell’amen compromette la nostra vita, ci rende tabernacoli viventi, ci trasforma in Cristo perché possiamo dare agli altri “noi stessi da mangiare” proprio come ha fatto Lui con noi e con l’intera umanità.
Sarebbe bello se tutte le nostre comunità parrocchiali, religiose e presbiterali assumessero lo stile eucaristico facendoci vivere nella consapevolezza che il pane, pur essendo uno è formato da tanti chicchi di grano, i quali, seppur diversi, sono tenuti insieme dall’acqua che ne fa un morbido impasto. Anche noi, ci ricorda san Paolo, pur essendo molti, siamo un corpo solo (Rm 12,5) tenuti insieme dall’acqua e dallo Spirito che fanno di noi un’unità ad immagine della Trinità in cui ognuno può essere se stesso sempre, libero, insieme agli altri, formando una vera fraternità. Per arrivare a tutto questo, dobbiamo sfamarci alla fonte del Pane di vita, del Pane vero, lasciando da parte tutti quei surrogati che ci abbagliano per il loro luccichio, ma che ci lasciano sempre e ancora affamati, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo che possa soddisfare la nostra ingordigia. Solo Gesù, solo il Suo corpo e il Suo Sangue sono il nostro vero alimento. Avviciniamo a Lui con tutto il cuore, accogliamolo in noi e troveremo la vera pace! Amen.
Tutti abbiamo un’idea di Dio, per crederci o per rifiutarlo. Alcuni fingono di non pensarci, altri lo accusano delle storture che viviamo continuamente. Altri lo pregano e lo invocano.
Mai si è sentito dire di un Dio che si è scelto un popolo che lo ha salvato, seguito, che lo ha fatto uscire dalla schiavitù. Chiediamoci se sia mai successo che un Dio abbia indicato ad un popolo il segreto della felicità. Che gli abbia consegnato la mappa per cercarla. Così l’autore del Deuteronomio, stupito, ripensa all’esperienza di Israele, un popolo di nomadi che si è visto scegliere fra le nazioni per diventare sentinella, per raccontare ad ogni uomo chi è veramente Dio. Non un Dio qualunque. Non una proiezione delle nostre paure, dei nostri bisogni inconsci, non il garante dell’ordine costituito. Un Dio che parla, che dice, che si racconta. Questo è il nostro Dio. Un Dio, come dice Paolo, che attraverso lo Spirito si rivela come un Padre e che ci permette di fare esperienza di lui diventando suoi figli. Una scoperta che non passa più solamente per la liberazione da tutte le schiavitù che portiamo nel cuore, ma dall’essere discepoli di Cristo morto e risorto per svelarci il vero volto di Dio. Una conoscenza sofferta, che richiede un percorso, un cambiamento, una crescita interiore. Dio si accoglie, non si conquista.
Nel Vangelo abbiamo ascoltato Gesù che si avvicina ai suoi discepoli. Ha qualcosa di importante da dire, una missione da affidare. Si avvicina a loro anche se dubitano. Non vuole i migliori, non sa che farsene delle brave persone. Vuole figli, non giusti. E ai discepoli dubbiosi chiede di andare fra la gente e non chiudersi in un recinto sacro e rassicurante: essere cioè Chiesa in uscita. Di battezzare ogni uomo nel mistero della Trinità. Un Dio che, finalmente, manifesta la sua sorprendente natura. Un Dio che è comunione, relazione, comunicazione, dono di sé, danza…festa. Non un Dio solitario, immobile nella sua perfezione, statico e distratto.
Dio genera amore che dilaga, si diffonde e contagia. Questo dobbiamo raccontare: che siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Che in me c’è la Trinità. E’ faticoso e crocifiggente relazionarsi, certo. Amatevi dell’amore con cui siete stati amati, chiede il Signore Gesù. Ma non si tratta di operare una scelta di vita, più o meno conveniente, ma di assecondare ciò che siamo veramente nel nostro profondo. Siamo chiamati noi per primi ad amarci dell’amore del Dio Trinità e a raccontare quanto ci sta cambiando la vita, anche nella fatica, nella contraddizione, al di là di ogni limite, di ogni peccato. Non siamo soli in questo compito, ci è stato ripetuto in queste ultime domeniche con insistenza. Lui è con noi, per sempre. Ci è accanto, conferma le nostre parole se le viviamo. Questo è il Dio in cui vogliamo credere.
A Lui ci rivolgiamo con la preghiera tratta dall’enciclica Laudato si’. “Signore Dio, Uno e Trino, comunità stupenda di amore infinito, insegnaci a contemplarti nella bellezza dell’universo, dove tutto ci parla di te. Risveglia la nostra lode e la nostra gratitudine per ogni essere che hai creato. Donaci la grazia di sentirci intimamente uniti con tutto ciò che esiste. Dio d’amore, mostraci il nostro posto in questo mondo come strumenti del tuo affetto per tutti gli esseri di questa terra, perché nemmeno uno di essi è dimenticato da te. Illumina i padroni del potere e del denaro perché non cadano nel peccato dell’indifferenza, amino il bene comune, promuovano i deboli, e abbiano cura di questo mondo che abitiamo. I poveri e la terra stanno gridando: Signore, prendi noi col tuo potere e la tua luce, per proteggere ogni vita, per preparare un futuro migliore, affinché venga il tuo Regno di giustizia, di pace, di amore e di bellezza. Laudato si’! Amen
don Franco Bartolino, parroco della Cattedrale di Pozzuoli
Nella solennità dell’Ascensione celebriamo il mistero di Cristo che, avendo assunto la nostra natura umana con l’Incarnazione, dopo la sua Morte e Risurrezione, fa ritorno alla gloria del Padre. Con l’ascesa al cielo termina la sua missione ed ha inizio quella della Chiesa. La missione di Cristo è durata solo pochi anni, quella della Chiesa, invece, si protrarrà fino al suo ritorno glorioso.
Nel racconto dell’evangelista Marco, si evidenzia che il Signore non si separa dalla vita dei credenti, ma si inserisce nella loro esistenza, potenziandola con una forza ed un’energia più grande di quella che avevano conosciuto. Gesù invita i suoi ad andare in tutto il mondo e a proclamare il vangelo ad ogni creatura; conferisce il mandato missionario,e attraverso di loro, anche a tutti i cristiani, a tutti noi. Ricorda, inoltre, i segni che accompagneranno quanti credono in Lui, garanzia della sua presenza al loro fianco:” Scacceranno demoni…” il male che divide da Dio e dai fratelli”; parleranno lingue nuove…” con il dono dello Spirito che permetterà di dialogare ed entrare in amicizia con tutti; “prenderanno in mano i serpenti…” non avranno paura di nessuno, sapranno vedere in tutti l’immagine di Dio; “imporranno le mani ai malati e questi guariranno…” assicura che lo Spirito guarisce ogni malattia interiore e garantisce che il Signore è sempre presente ed opera insieme con noi e attraverso di noi.
“Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro…”. Anche noi, come i discepoli del Risorto, siamo chiamati a partire e a predicare, con la testimonianza della vita, la gioia profonda che Cristo ci ha donato. Siamo chiamati a rivivere, nel nostro ambiente, questa storia sempre nuova, a rileggerla e a raccontarla agli altri con il linguaggio del nostro tempo, nella concretezza del quotidiano. Il cristianesimo si trasmette così, da persona a persona; non è una dottrina o un insieme di norme di condotta, ma l’incontro con la Vita che ha sconfitto la morte.
“Celebrare la tua ascensione, Signore, significa per noi non guardare più in cielo, ma volgere il nostro sguardo alla terra. Ora inizia il tempo del nostro impegno, lo spazio della nostra responsabilità di cristiani, il banco di prova della nostra fiducia in te. Tu, Signore, non ci lasci soli. Ci hai promesso di camminare con noi e con chiunque cerchi di costruire un mondo più giusto, una Chiesa più umana, una società più solidale.
Ci chiedi solo una cosa: amare te nel volto delle persone che abbiamo accanto. Donaci la forza della fede; sempre e dovunque, concedici di essere canali trasparenti della tua grazia. Amen” sr Annafranca Romano