Nel vangelo di questa XVI domenica del t.o. (Marco 6, 30-34) Gesù si fa guida maestro per gli apostoli, per la gente smarrita e stanca di tanto cercare…
“In quel tempo”, in questo tempo, tanti sono i presunti maestri e i nuovi guru che offrono percorsi di salvezza e di liberazione che confondono, disorientano.
Il vero maestro conosce il cuore dei suoi, i desideri, le fatiche…Ed e’ così che quando gli apostoli rientrano entusiasti per i loro successi missionari, per “tutto quello che avevano fatto e insegnato” (Mc 6, 30), Gesù offre un luogo di riposo, di ristoro, di ricarica spirituale….Egli sa che i suoi sono a rischio burnout, così li sottrae… invitandoli in un “luogo solitario”.
Abbiamo bisogno di spazi di silenzio, di solitudine in cui ritrovarci, in cui ascoltare il nostro cuore per un’esistenza sempre più unificata. Un’esistenza in cui ci sia accordo, armonia tra sentire- pensare – fare , pena un’esistenza schizofrenica.
Gesù invita i suoi a questa esperienza di ascolto di sé, della vita, del mondo… E paradossalmente e’ in questi spazi di solitudine che si diventa più sensibili, più attenti, più capaci di gesti di tenerezza e cura nei confronti della vita.
“Sbarcando vide molta folla e si commosse per loro”….il vero maestro e’ colui che si fa testimone umile, che mostra con la sua vita come divenire prossimo, come abbattere ” il muro di separazione” (Ef 2, 14) e “riparare brecce” e “costruire ponti”.
” Si mise ad insegnare loro molte cose”. Possiamo imparare da Gesù, maestro “mite e umile di cuore” (Mt 11, 29) a vivere con verità e consapevolezza la nostra esperienza umana, custodi responsabili delle sorti dei nostri simili e della nostra Casa comune.
“In quel tempo”…in questo tempo Gesù continua a chiamare “operai per la sua messe”. Il campo del mondo e’ vasto con i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue attese…Come rispondere? Con quali mezzi e strumenti? A volte ci sentiamo inadeguati, i nostri sforzi incongrui e anche le nostre forze.
In questo Vangelo di oggi Gesù ci consegna lo stile del suo discepolo e la modalità di evangelizzare. Per prima cosa “chiama a sé i Dodici”: nello stare con lui impariamo a stare nella sua prospettiva, a cogliere il senso della sua e nostra missione. ” Prese a mandarli a due a due”: il paradigma che ci salva e’ proprio questo: la fraternità che condivide, che cammina e lavora insieme…Non solitari protagonisti, ma collaboratori umili che investono in fiducia. Condizioni del discepolato: la poverta’ e fiucia in Dio…Vivere con la certezza che Dio provvede “per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete e neanche per il vostro corpo…” (Mt 6,25-26). Solo quando siamo capaci di questo sguardo colmo di gratitudine e fiducia siamo credibili e possiamo compiere le opere di Gesù e anche di più’ grandi…Il potere sugli spiriti impuri, “il potere di ungere con olio molti infermi”, il potere di annunciare la parola che trasfigura.
Essere trasparenza del mistero di Dio perche’ ogni uomo possa accedervi, riconoscendo sempre all’altro la sua liberta’. Gesù anticipa il rifiuto del suo messaggio e invita i suoi al rispetto: “Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene…” (Mc 6, 11). Mette al riparo i suoi da ogni fondamentalismo e violenza in nome di Dio, prevedendo i futuri risvolti della storia.
Dio e’ dalla parte dell’uomo, soprattutto del povero e sofferente, mai contro. La Buona Notizia risuona sulla bocca dei profeti di oggi e corre sulle loro gambe: annuncio della prossimità di Dio che ama, guarisce, converte nella libertà.
Il brano evangelico di questa domenica è racchiuso tra due parentesi di stupore: inizia con la sorpresa della gente di Nazareth:”Da dove gli viene tutta questa sapienza e questi prodigi?” e termina con la meraviglia di Gesù: ”E si meravigliava della loro incredulità”. Ci rivela che l’incredulità all’operato di Gesù viene proprio dalla sua patria, da chi l’ha visto crescere in quei trent’ anni di umiltà, di lavoro e di servizio. Gli anni trascorsi a Nazareth, con Giuseppe e Maria, non sono soltanto anni di crescita fisica, sono il nascondimento di un Dio salvatore, che decide di condividere con la creatura tutta l’esperienza umana e terrena. Sono il risultato di una scelta di umiltà vera, concreta e discreta di Dio che regna nei cieli; sono il passaggio temporale di una vita umanamente vissuta da Dio creatore. Alla luce della morte e risurrezione di Cristo, possiamo comprendere questi anni di silenzio, così difficili da accettare dai suoi contemporanei, ma anche da noi oggi. Gesù si presenta come un Maestro povero, semplice ed umile, ma che tuttavia parla di cose mai udite prima: ”Da dove gli vengono queste cose…non è costui il falegname….ed era per loro motivo di scandalo”. Scandalizza l’umanità di Gesù, la prossimità di Dio. Eppure è proprio questa la buona notizia del Vangelo: stupore della fede e scandalo di Nazareth: Dio ha un volto d’uomo, il Logos la forma di un corpo.
Hanno proprio ragione a chiedersi da dove viene la sapienza di Cristo; non è certo la sapienza umana, spesso così piena di sé, così desiderosa di riconoscimenti, pronta a mostrarsi superiore e talvolta orgogliosa! E’ tutt’altra Sapienza, che trova proprio nell’umiltà e nel servizio generoso il suo ambiente vitale.
La questione che pongono è giusta, ma non hanno il coraggio di aprire il cuore a tutto ciò che implica la risposta alle loro domande. L’invito per noi è lo stesso; in una società che si proclama cristiana, rischiamo di chiuderci al suo amore e non comprendere in pieno il suo messaggio. A conclusione del brano, Marco annota:” Non vi poté operare nessun prodigio: solo impose le mani a pochi malati e li guarì. Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo.
Il Signore ci conceda di essere liberati dall’orgoglio, per lasciar posto a Lui e alla sua Parola; Egli non vuole agire con la sua onnipotenza, ma desidera che collaboriamo con la nostra fiducia e con il nostro desiderio di credere in Lui e di amarlo.
L’evangelista Marco, nella pericope odierna, mostra, ancora una volta, l’attività taumaturgica di Gesù e presenta due personaggi, Giairo e l’emorroissa i quali, pur appartenendo a due mondi culturali, sociali diversi, portano nel cuore, però, la stessa domanda per ricevere speranza, vita: l’uno per la figli dodicenne, l’altra per se stessa ammalata da dodici anni; una speranza che essi non potevano darsi da se stessi, né ricevere da altri (v. 26). Questa marcata differenza tra i due non trova spazio dinanzi agli occhi del Signore perché egli li guarda nel loro essere uomini e donne bisognosi entrambi di una salvezza che non si può né fabbricare, né comprare. Dinanzi al Signore, quindi, c’è l’uomo nella sua umanità, l’uomo di tutti i tempi, l’uomo bisognoso di speranza e di salvezza, cioè ognuno di noi.
È anche vero che i due personaggi di questo racconto, si avvicinano a Gesù con una richiesta che potremmo definire “terrena, ossia la guarigione corporale, fisica, ma già in essa possiamo notare un loro primo affidarsi al Signore che permetterà poi loro di incontrare anche il dono della salvezza. È questo l’atteggiamento vero, profondo, che ci permette di scorgere il Signore nella nostra vita: l’abbandono in lui e la percezione del nostro nulla senza di lui…, è questo il dono di quella fede che continua a sperare nonostante le evidenze contrarie.
Il dono della fede ci permette di toccare il Signore, di saperlo così presente in mezzo a noi, vicino a noi, interessato alla nostra esistenza e alla nostra felicità. Solo il Signore può donarci la salvezza nell’incontro con lui, una salvezza che, come sottolinea pure la prima lettura odierna, si identifica con la vita. L’uomo è fatto per la vita, perché creato ad immagine di colui che è la Vita e possiede la Vita. Tuttavia, a volte, per la ferita del peccato, l’uomo sperimenta quella condizione di morte interiore che lo segna, lo allontana dal Signore, vera sorgente di vita.
Comprendiamo allora che abbiamo bisogno di toccare il Signore, di sperimentare il suo tocco salvifico per ognuno di noi per metterci alla sua sequela e per aprirci alla continua conversione del nostro cuore che ci porterà sempre più vicino al Signore e ai fratelli.
Oggi la dodicesima domenica del tempo ordinario viene sostituta dalla solennità della natività di San Giovanni Battista: uomo mandato da Dio e venuto per rendere testimonianza alla Luce, è colui che il vangelo ci fa conoscere come il precursore di Gesù. Anche se figlio di Zaccaria e di Elisabetta, la sua vita non è frutto dell’iniziativa umana, ma dono concesso da Dio a due genitori avanzati nell’età e perciò destinati a rimanere senza figli.
All’inizio del suo vangelo l’evangelista Luca si preoccupa di narrare l’infanzia di Giovanni Battista accanto all’infanzia di Gesù; un bambino che annuncia la presenza di un altro bambino. La liturgia della Parola di oggi raggruppa la figura di Giovanni Battista intorno a tre temi: il nome, la parola e il deserto.
Il nome Giovanni significa “Dio fa grazia”; dentro la storia siamo anche noi chiamati a vivere il dono che Gesù ci ha consegnato. Giovanni ha risposto alla vita rendendo testimonianza alla luce e alla verità. Il nome di Giovanni viene da Dio e così anche la sua vocazione e la sua missione. La missione di Giovanni è stata quella di preparare la via a Gesù; preparare è più che annunciare. Occorre mettere a servizio di Gesù e del suo progetto di salvezza non solo le parole, ma la vita intera. Giovanni Battista con il suo comportamento penitenziale ha voluto far comprendere ai suoi contemporanei che era venuto il tempo della grande scelta, quella cioè di stare dalla parte di Gesù o contro di Lui.
Giovanni è anche uomo della Parola; egli è colui che fa risuonare la Parola, dono ricevuto e missione a cui consacrare la vita. Giovanni annunciando, esortando, invitando, esprime con forza la centralità della Parola.
Infine possiamo dire che Giovanni è uomo del deserto poiché la sua esistenza è quasi completamente accompagnata da questo elemento. Il deserto è il luogo della solitudine e del silenzio, il luogo in cui sembra impossibile che nasca la vita, eppure è la via privilegiata per arrivare a Dio. Da apparente luogo di morte è diventato il luogo in cui Giovanni è stato raggiunto dalla Parola di vita.Chiediamo al Signore di essere “voce”, di farci riconoscere la Sua Parola come unica Parola di vita eterna; di renderci solleciti a preparare il nostro cuore e quello di nostri fratelli ad accogliere Lui.