Ci troviamo nel primo giorno della settimana, inizia di corsa per Maria Magdala questo giorno, non ha neanche la pazienza di attendere la luce piena. In verità le donne dopo la morte di Gesù non si sono fermate, il Vangelo di Luca racconta così: “Le donne che erano con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento” (Lc 23,55-56).
Subito dopo che Gesù è stato deposto nel sepolcro le donne non si arrendono, non si deprimono, ma pensano e fanno quello che ancora si può fare, sono vigili e lucide nell’osservare dove e come il Signore viene deposto e preparano gli oli profumati. Anche di fronte alla morte loro sono dinamiche, si sono fermate solo il sabato, ma poi il primo giorno della settimana eccole sulla via che conduce al maestro. Che bella lezione la loro per tutte le volte che ci si arrende, ci si rassegna, ci si ferma, per tutte le volte che decidiamo di morire da vivi. Perché finche si è vivi si può sempre fare qualcosa, abbiamo sempre dei motivi per non rassegnarci, per correre di buon mattino, per vincere le tenebre, anticipare il giorno e affrettare l’alba.
La tomba vuota spaventa Maria di Magdala, il timore di aver perso di nuovo il Signore assale il suo cuore e ricomincia la corsa all’indietro per raccontare dell’accaduto. Ed ecco che ha inizio un’altra corsa, Giovanni e Pietro corrono insieme, Giovanni non si trattiene e va più veloce. Ma aspetta per entrare, insieme bisogna contemplare i teli posati lì. Non ci sono parole, non c’è dialogo, solo sguardi, silenzio, stupore. Un sepolcro vuoto che aiuta a fare chiarezza nel cuore e nella mente. Questa scena mette insieme gli avvenimenti e le parole di Gesù che erano rimaste misteriose e incomprensibili, le parole del Maestro ancora una volta si avverano. Vide e credette, finalmente i segni portano alla fede, bastano per credere, il vuoto non spaventa più, non è assenza, sa di una presenza che mai più mancherà in ogni vita. Ecco il senso della Resurrezione, riuscire a cogliere una presenza dove il Signore sembra assente, riempire di vita nuova i sepolcri vuoti, correre insieme. Sa di risurrezione la nostra vita ogni volta che cerchiamo il Signore, che crediamo nella luce del nuovo giorno, ogni volta che condividiamo le nostre paure, i nostri dubbi, la nostra fede vacillante e incompleta. Sa di resurrezione la nostra vita ogni volta che non chiediamo certezze, ma che nel cuore non perdiamo mai quel filo che unisce e unifica gli avvenimenti della nostra vita, della nostra storia. È pasqua ogni volta che la solitudine non chiude il cuore, ogni volta che le tombe vuote ci invitano a correre ancora e a cercare il Signore per le strade del mondo, nei volti che per sempre porteranno un segno di Lui perché da Lui amati e redenti.
In questa quinta domenica di quaresima è il Vangelo di Giovanni (8,1-11) ad accompagnarci. Abbiamo percorso con Gesù questo cammino che ci ha visti protagonisti delle nostre scelte anche nel deserto delle tentazioni e ci ha fatto poi sperimentare la luce del Tabor. E poi abbiamo contemplato la pazienza di Dio che non esita a dare tempo al fico sterile e anche alle nostre vite spesso lente nel portare i frutti. Dopo aver sperimentato l’abbraccio che avvolge di misericordia, oggi -ancora una volta- siamo chiamati a fare la nostra scelta, decidere da che parte stare.
In questa pericope giovannea l’adultera, che è posta in mezzo per essere lapidata. non è la vera e unica protagonista. I dottori della legge non avvertono inquietudine per una donna che sta per essere lapidata. No, questo non inquieta i cuori induriti dalla legge. Quello che li mette in crisi, quasi in angoscia, è Gesù con il suo pensiero che non si può ingabbiare, con la sua schiettezza e misericordia che sono come una lancia ormai insopportabile per loro. Con quella domanda insidiosa e con un fatto concreto, la donna trovata in fragrante adulterio, pensano di averlo finalmente incastrato. “Tu che ne dici”? …Come sempre Gesù non è contro niente e nessuno, non è contro la legge, non è contro nessun uomo mai, ma è certamente contro l’agire senza cuore. Non ci sta di fronte a questo desiderio di lanciare le pietre subito, di condannare senza esitare. E allora arriva la risposta: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Fate pure, questa donna è peccatrice, va lapidata ma ogni pietra lanciata deve essere preceduta da una riflessione: io chi sono? Ora potente perché ho un sasso in mano. Ma chi sono quando sperimento tutte le mie miserie, fragilità, i miei peccati? All’improvviso le parole di quest’uomo fanno ritornare al cuore, fanno comprendere che non si è potenti lanciando pietre. Ci rendono forti i gesti del cuore e non quelli della cieca obbedienza alla legge.
Tutto crolla di nuovo, le pietre non servono più, hanno perso la loro forza, hanno perso proprio il senso, perché non ha più senso puntare il dito, accusare, emettere sentenze, nessuno ne è veramente degno. Gesù risponde ai suoi provocatori, salva la donna che sta per essere lapidata, ma soprattutto libera tutti noi da noi stessi, da tutti i tribunali che innalziamo per condannare gli altri e non guardarci mai dentro, non tornare mai all’essenziale. Ci alleggerisce la risposta di Gesù da tutte le pietre lanciate e quelle che sono lì pronte, ci libera dal facile giudizio e ci invita a comprendere. Gesù ci libera dalle nostre pietre e anche da quelle degli altri. E così questa donna torna a rivivere. Gesù, l’unico senza peccato, non la condanna. “Neanch’io ti condanno; d’ora in poi non peccare più”: non condanna ma apre al futuro. Per Gesù il peccato non è l’essenza dell’uomo, non è l’ultima parola. Il perdono è la vera forza, l’unica capace di rendere forte anche l’altro, l’unica a ricordarci che siamo fatti per amare e non per condannare.
In questa quarta domenica di Quaresima la liturgia (Lc 15,1-3.11-32) ci invita a contemplare la parabola del Padre misericordioso. Anche questa volta la parabola è preceduta dal mormorare di scribi e farisei: “costui accoglie i peccatori e mangia con loro”
Gesù non risponde mormorando, innescando la polemica. Non cade nel tranello dello stile degli scribi e farisei, risponde con una parabola che mette in luce il cuore dell’uomo, le sue fatiche, le sue paure, le sue libertà e le sue schiavitù. Si parla di una famiglia normale, anche ricca, ma che non basta, sta stretta al figlio minore e decide di andarsene chiedendo di portarsi dietro un pezzo di famiglia, ciò che gli spetta. E così avviene, peccato però che non è questo a renderlo felice, a dargli la libertà che voleva. Ha avuto ciò che gli spettava, ma non è mai sufficiente per vivere ciò che ci meritiamo, ciò che è parte dell’eredità nostra. Ci rende liberi e felici la gratuità del dono, il di più non previsto, non atteso, non calcolato. Quello che meritiamo finisce, “sperperò il suo patrimonio”, i beni non si moltiplicano se non all’interno della famiglia, grazie alle relazioni vere. Quindi bisogna ritornare a casa, perché a casa è sempre possibile ricominciare, riprendere in mano la propria vita e la propria storia, ripartire ridimensionando anche un pò se stessi; “trattami come uno dei tuoi salariati”. E’ vero che il figlio minore si è allontanato dalla propria casa, ma non hai mai perso la certezza di avere una casa, certezza che probabilmente è la spinta giusta per poter rientrare in se stesso e ritrovare il coraggio di tornare. Ci vuole tanto coraggio per andare, altrettanto per tornare. Un ritorno il suo senza pretese e un’accoglienza che supera ogni attesa, sproporzionata diremmo noi. Un’ accoglienza che passa dallo sguardo al cuore e diventa incontro in un gesto di abbraccio; “quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”
Un’accoglienza che si trasforma in festa, festa del perdono, dell’incontro, dell’armonia ritrovata, finchè un figlio è lontano non si è mai veramente completi, manca sempre un pezzo.
Il padre non pensa quello che ha perso, ma quello che ha ritrovato. Ha perso sì, parte delle sue ricchezze, ma ciò che conta è non aver perso il figlio. Perché si è figli solo quando si è amati e accolti sempre, comunque e nonostante tutto. Ci rende figli l’amore del Padre, ci rende eredi una casa sempre aperta, ci dona dignità il vestito della misericordia e l’anello al dito che dice e conferma : “tu sei mio figlio”.
Se tutto questo ci rende figli per diventare veramente anche fratelli bisogna imparare a condividere la gioia, partecipare alla festa. Non ci riesce il figlio maggiore che da casa non si è mai allontanato ma che è rimasto sempre come servo. Infatti non si riesce a far festa quando tutto è calcolato secondo meriti e premi, quando stiamo lì ad aspettare ciò che crediamo di meritarci. Forse in questa parabola non si parla solo del ritorno del figlio minore, quello ribelle, quello che ha avuto il coraggio di allontanarsi e riavvicinarsi. È la parabola anche del figlio maggiore che è stato confermato, accolto e incoraggiato: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisogna far festa e rallegrarsi…”. Sì, la misericordia e l’accoglienza del padre ci insegna proprio questo: far festa e rallegrarsi, diventare fratelli. Ci insegna ad essere figli.
Il Vangelo di Luca di questa settimana parte da un fatto che riferiscono a Gesù “di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici” (Luca 13,1). Non solo viene riferito l’accaduto, ma sottinteso c’è pure il giudizio, in fondo erano dei peccatori, dei malfattori, un po’ magari se lo meritavano…
Gesù come sempre alza il livello del discorso, coglie l’occasione per fare una lezione anche a chi si sente maestro, o comunque, superiore a quei tali che hanno subito quella sorte. “Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”. Dure queste parole, ma adatte per rispondere alla durezza di cuore degli interlocutori di Gesù. Voi non siete migliori – sembra dirci oggi il Signore- ma, avete una opportunità, siete fortunati…potete convertirvi. Quello che era partito come un semplice commentare un fatto di cronaca diventa un’occasione di riflessione per tutti. Un passare dal giudizio sugli altri e sugli avvenimenti alla verità della propria vita, del proprio cuore. “Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”.
Insomma finché staremo lì a giudicare gli altri siamo come quel fico che non porta frutto, sfrutta il terreno. E se c’è chi decide giustamente di tagliare, c’è anche chi porta pazienza. Lascialo ancora quest’anno, c’è sempre chi è pronto a fare la stessa fatica degli altri anni, gli stessi sforzi già sperimentati; ” gli zapperò attorno”. Ci vuole coraggio a scommettere su ciò che già non ha portato frutto, su ciò che già ha magari deluso le attese, su ciò e su chi non dà quello che è stato chiamato a dare. Questo è il coraggio di chi davvero si prende cura, di chi ama, di chi intercede, di chi si china a zappare di nuovo. Ancora e sempre. Non sapremo mai se quell’ albero ha portato frutto, ma siamo certi che la pazienza condita dalla misericordia porta sempre frutto. Sappiamo per certo che la conversione é solo frutto di cura paziente. Non è dettata dalla fretta, dai risultati, ma dal desiderio di aiutare l’altro a portare il frutto che è chiamato a portare, ossia a vivere in pienezza.
In questa seconda domenica di quaresima ci viene già offerto un anticipo di Resurrezione. Il deserto, le tentazioni, la fatica che abbiamo incontrato nel Vangelo di domenica scorsa (Lc 4,1-13) sono situazioni temporanee, limitate e soprattutto hanno un fine: quello di trasformare la nostra vita e proiettarla verso l’orizzonte dell’eternità.
Siamo sul monte e Gesù vi sale per pregare, per parlare con il Padre, per comprendere insieme a lui la sua missione, per avere la forza di portarla a compimento. Puntuale arriva la conferma, come nel giorno del battesimo quando stava per iniziare la sua missione tra gli uomini. Tu sei mio figlio prediletto!
È proprio una relazione trasformante e che trasforma quella di Gesù col Padre: “mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto…”. Le vere relazioni, quelle sulla montagna, quelle che arrivano dopo un certo cammino anche in salita, sono relazioni che ci cambiano il volto e il cuore, rendono più bella la vita, diventano trascinanti. Peccato che spesso il sonno che opprime Pietro e i suoi compagni prende pure noi facendoci perdere la bellezza di un contatto di preghiera, di un esperienza di luce. Ma quando finalmente ci si sveglia, vorremmo che questo durasse per sempre.
“Maestro è bello per noi essere qui…” ma Luca precisa che Pietro non sapeva quello che diceva. Queste non sono esperienze che portano a rimanere, fermarsi, gustarle per se stessi, “è bello per noi stare qui”.
No, queste sono esperienze che rilanciano il cammino, che ancora una volta ci indicano la voce da ascoltare. ”Questi è Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. Non c’è quindi da rimanere, c’è da ascoltare, c’è da seguire una voce che sempre invita ad un cammino, ad un cammino in salita, che porterà su un altro monte, quello del Calvario, ma ci proietterà per sempre verso il cielo. Ecco il senso della trasfigurazione. E finalmente “essi tacquero” e quei giorno non riferirono a nessuno ciò che avevano visto. Di solito nel Vangelo dopo i miracoli, dopo i gesti eclatanti di Gesù, c’è sempre un parlare e un annunciare a tutti ciò che lui compiva, questa volta no, segue il silenzio, realmente i discepoli forse mettono in pratica l’invito del Padre “ascoltatelo”. D’altronde tutto il Vangelo ci ricorda continuamente questa dimensione . Gesù con questo avvenimento consiglia di fare ciò che ha fatto lui, cercare e vivere una relazione con al centro l’ascolto, il silenzio, la voglia di comprendere il mistero, è un invito il Suo a vivere a livello di cuore e non di parole.