Che Gesù non fosse stato un personaggio comodo e pacifico, l’avevamo già compreso; che il suo Vangelo fosse un messaggio difficile non solo da comprendere ma soprattutto da vivere, credo che sia ben chiaro a tutti, credenti e no. Ma ascoltare le sue parole che nella Liturgia di oggi ci dicono: “Non sono venuto a portare pace sulla terra, ma divisione”… qualche difficoltà ce la creano!
Gesù è l’uomo della pace, e la pace è il primo dono del Risorto; la pace è il primo annuncio degli angeli in cielo ai pastori di Betlemme, ed è l’esortazione finale alle donne che trovano il sepolcro vuoto il mattino di Pasqua. Se dunque la vita di Gesù è racchiusa tra due parentesi di pace, come possiamo pensare che il suo messaggio, la sua persona, siano avvenuti per portare “divisione sulla terra”? E le nostre vicende quotidiane, già così problematiche per se stesse, perché devono sopportare ulteriori divisioni create dalla sua Parola? In definitiva, cosa ci vuole insegnare il Signore con questo brano di Vangelo?
Egli è venuto a proclamare e annunciare la Verità – contro l’arroganza di sedicenti cristiani – di fronte alla quale occorre scegliere: prendere o lasciare. E questa Verità, questo fuoco che è venuto ad appiccare, questo Battesimo che è venuto a ricevere, è Lui stesso, la sua persona.
Se le cose stanno così, non è difficile comprendere come, di fronte a lui, non ci si possa sentire in pace, ma profondamente divisi. Di fronte alla “vicenda Gesù” da ormai oltre duemila anni non c’è condivisione, ma – appunto – divisione. Non tutti, infatti, lo accettano, soprattutto per la scomodità del messaggio: perché il suo messaggio non lascia affatto comodi coloro che lo accolgono.
Essere credenti o non esserlo, non è per nulla la stessa cosa, perché il suo messaggio, il suo Vangelo, la sua stessa persona, sono motivo di contraddizione, di confronto di divisione. Questo non vuol dire affatto che il cristiano sia migliore degli altri o che chi non crede in Cristo abbia dei difetti o sia meno uomo o meno donna di un cristiano. Gesù ci vuole solamente dire che di fronte a lui bisogna prendere posizione, e quando si prende posizione inevitabilmente ci si confronta, e magari pure ci si scontra, con chi ha preso una posizione totalmente diversa dalla nostra. Questa è la dialettica della fede cristiana, che accompagna il messaggio di Cristo e che continuerà finché questo mondo durerà. Forse, pure questa dialettica, questo “incontro – scontro” col Cristo, questo chiaroscuro dipinto sulla tela della storia, rappresenta la forza di un messaggio che non lascia indifferenti.
Il giorno in cui il cristianesimo non fosse più un messaggio di contraddizione, di scomoda profezia, di denuncia, di accusa, di stimolo, di presa di coscienza, di domande, di tutto ciò che è in divenire, e si accomodasse ad una pacifica situazione di staticità, potremmo tranquillamente proclamarne la sconfitta.
E ciò che più preoccupa, è che il grande male che rischierà di schiacciare il cristianesimo, non sarà una forza a esso esterna, e nemmeno una fede a esso alternativa, ma l’atteggiamento che lo stesso Cristo teme come una gettata d’acqua sul fuoco: l’indifferenza di noi cristiani.
Siamo nella 19^ domenica del tempo ordinario e nel vangelo di Luca (Lc 12, 32-48) Gesù propone ai suoi discepoli uno stile di vita che è presupposto fondamentale per annunciare il Regno.
Al Signore sta a cuore la nostra ricerca senza affanno del Regno di Dio, ma ricorda che è una ricerca che impegna inevitabilmente la vita e il cuore. Il problema –sembra dire Gesù- non sta nell’essere “piccolo gregge”: non è la piccolezza che bisogna temere, ma piuttosto la ricerca di cercare altri tesori, di avere altre preoccupazioni, di correre per altre strade che non portano a Lui.
…Cosa cercare allora? Prima fra tutte la libertà interiore: un cuore libero dalle cose non rischia di confondere il “tesoro” dai tanti tesori che si possono accumulare. “Vendete ciò che possedete”perché per predisporsi ad un cammino verso il Regno occorre leggerezza. Vi è un possesso che appesantisce la vita e rende custodi preoccupati di cose che invecchiano.
E poi è richiesta una vigilanza, un’ attesa che impegna la vita tutta, che non prevede tempi di pausa. “Vesti strette ai fianchi e lampade accese” sono la disponibilità a rimanere e a camminare nel buio, ad affrontare le difficoltà della notte, ad andare incontro al padrone. L’attesa si trasforma in beatitudine e la logica si capovolge: i servi vengono serviti dal padrone in una condivisione gioiosa del banchetto. Davvero possiamo pensare che il Signore ci è grato dell’impegno, dell’attesa operante, del nostro non smettere di essere servi con le lampade accese.
Questa parobola ci ricorda una sola cosa semplice, vivere da servi sempre, avere sempre qualcuno da attendere, non abbassare la guardia e non confondere il ritardo del Signore con il non ritorno.
Gesù propone uno stile, un modo di vivere e di intendere la vita, un cammino di verità e responsabilità. Ad ognuno è affidata la possibilità di custodire e annunciare il Regno… non di possederlo, un altro è il padrone. Il vero segreto della vita di sequela è non smettere mai di essere ciò che si è chiamati ad essere: Discepoli e servi accompagnati dal pastore. “Non temere piccolo gregge” perché la forza sta nello sguardo benevolo e di compiacimento che il Padre pone continuamente su di noi.
Questa beatitudine che riscontriamo nel vangelo di Giovanni è rivolta a me, a te, a noi tutti cristiani di oggi riuniti come Chiesa. È un’esclamazione di Gesù che da pace e gioia al nostro cuore, a noi cristiani chiamati realmente a testimoniare la nostra fede nel Risorto pur tra tante controversie, accuse, difficoltà.
Il testo ci dice che è ancora domenica e che il Risorto torna tra i suoi rinchiusi nel cenacolo, atterriti di paura. L’annuncio delle donne circa la tomba vuota e la Risurrezione del Maestro non era riuscita a rinfrancare e a dare coraggio al loro cuore. In questo clima di chiusura in uno spazio ben definito come luogo, il cenacolo, e quella interiore generata dal timore, ritorna il Cristo portando pace (che non è solo assenza di guerra) e suscitando gioia nei discepoli chiamati a prendere atto delle piaghe gloriose del Signore.
Il testo evangelico che la XV domenica del Tempo Ordinario propone alla nostra riflessione, è quello del Buon samaritano. La parabola ci aiuta a comprendere cosa vuol dire amare gli altri. Attraverso le scelte e le azioni dei tre personaggi (un sacerdote, un levita, un samaritano) possiamo comprendere, infatti, quali siano gli atteggiamenti ed i comportamenti propri di chi sa amare.
Le prime parole di Gesù ci presentano la situazione provocante che i tre si trovano davanti. E’ una situazione che interpella profondamente, c’è un bisogno ineludibile al quale dare risposta: un uomo depredato di tutto, ferito, in pericolo di vita, senza più neanche voce per invocare aiuto.
I primi due personaggi, entrambi legati al servizio a Dio nel tempio, rappresentano un primo tipo di reazione. Entrambi vedono il bisogno, analizzano la situazione, prendono coscienza della necessità, ma entrambi passano oltre, senza lasciarsi coinvolgere, senza adoperarsi in alcun modo per soccorrere l’uomo ferito. E’ il segno chiaro che non basta vedere, magari anche commuoversi davanti alla sofferenza, è necessario farsi prossimo e agire. E’ quello che fa il terzo personaggio, che la parabola evidenzia: è un samaritano, un uomo considerato eretico dagli ebrei. “Invece un samaritano, che era in viaggio…..”.
Per comprendere cosa vuol dire amare gli altri è importante porre attenzione ai verbi con cui l’evangelista indica l’agire dell’uomo: anch’egli passa accanto, anche egli vede, ma ciò che fa la differenza e che spiega tutte le azioni successive è indicato dai due verbi ”avere compassione” e “farsi vicino” . E’ questo atteggiamento basilare che si traduce poi in tutte quelle azioni che il samaritano mette in atto: fascia le ferite, presta le prime cure con olio e vino, carica l’uomo sulla sua cavalcatura, chiede aiuto da altri, si assume le spese del soggiorno in una locanda fino alla guarigione.
Il samaritano non si chiede chi sia il ferito, il suo aiuto è disinteressato, generoso, concreto. Il prossimo da aiutare non si può definire, è colui che incontri nella tua giornata e che ha bisogno di sostegno, di attenzione, di presenza. La domanda da porsi è se nel nostro cuore vi sia realmente spazio per la prossimità verso i fratelli ,che sono nel bisogno, chiunque essi siano.
Nei gesti e nelle azioni del buon samaritano riconosciamo l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza. E’ la stessa compassione con cui il Signore viene incontro a ciascuno di noi, Egli non ci ignora, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione, di conforto e di speranza.
Sappiamo bene che il Buon samaritano è Gesù. Quando venne nel mondo ebbe tanta compassione di noi, da portare a compimento il grande disegno del Padre suo, che era quello di dare la vita per i fratelli. Ora anche lo scriba, che aveva chiesto: ”Chi è il mio prossimo?” sa chi è, e Gesù lo conferma: ”Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
A ciascuno di noi, oggi, Egli ripete ciò che disse al dottore della Legge: ”Va’ e anche tu fa’ così”. Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, figura di Cristo, che si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo e ci ha salvati perché anche noi possiamo amare allo stesso modo.
La pace e la gioia, dono del Risorto e segni messianici della Sua presenza tra noi, devono essere però condivisi con tutta l’umanità. Perciò essi, i discepoli e con loro anche noi, vengono “riplasmati” dall’alito del Signore in una creazione nuova e dal soffio di quello Spirito che Gesù stesso emise dalla croce (Gv 19, 30). Spirito santo e dunque remissione dei peccati sono necessari per appartenere realmente al vero corpo di Cristo che è la Sua Chiesa.
Il Risorto ricrea, rigenera, riforma in ognuno di noi l’uomo nuovo, l’uomo della Risurrezione.
Scopriamo così che, grazie al dono dello Spirito, passiamo dalla paura alla fede, dal dubbio alla certezza. È il caso di Tommaso che non era presente nel giorno in cui il Signore si manifesta. Tommaso è un po’ quel discepolo che abita in ognuno di noi quando, per credere, abbiamo bisogno di mettere il dito (v. 25), di segni che il Cristo realizza però all’interno della comunità, nel giorno di domenica.
Anche a noi, ogni domenica, sono offerti i segni del pane e del vino nei quali, grazie al dono dello Spirito Santo, possiamo scorgere la vera presenza del Cristo risorto in mezzo a noi nel Suo corpo donato e nel Suo sangue versato, ma spesso, i nostri occhi sono incapaci di scorgerlo e di riconoscerlo.
Ma è proprio nella celebrazione domenicale di questi santi misteri che il nostro cuore ha bisogno di professare la propria fede: mio Signore e mio Dio (v. 28). Tommaso abita in noi e noi abitiamo con gli altri nella Chiesa e ci siamo con i nostri dubbi e le nostre perplessità ma sappiamo di non essere soli perché il Vivente cammina con noi e con tutti gli uomini della terra.
Abbiamo allora bisogno di riscoprire il valore della nostra preghiera, del nostro incontro con il Risorto che ci introduce sempre più nel tempo della Risurrezione, nel tempo della novità di vita per ascoltare l’invio del Signore: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (v. 21).
Celebriamo oggi la festa della Divina Misericordia.
Essa è la più importante di tutte le forme di devozione alla Divina Misericordia. Gesù parlò per la prima volta del desiderio di istituire questa festa a suor Faustina a Płock nel 1931.
La scelta della prima domenica dopo Pasqua ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero pasquale della Redenzione e la festa della Misericordia, cosa che ha notato anche suor Faustina: “Ora vedo che l’opera della Redenzione è collegata con l’opera della Misericordia richiesta dal Signore”.
Avviciniamoci dunque al Cuore di Cristo che largamente accoglie e perdona e lì, stabiliamo la nostra dimora!
Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima ci introduce nel grande mistero della salvezza. L’evangelista narra di Gesù, che appena ricevuto il Battesimo, fu condotto nel deserto. Ecco il primo riferimento per il credente. Entrare nel deserto vuol dire liberare la nostra vita dalle tante cose superflue di cui l’abbiamo riempita. Le tentazioni, a cui è sottoposto Gesù, vanno a toccare gli aspetti basilari della nostra esistenza terrena: il pane, la dignità personale e il nostro rapporto con Dio.
E’ in questi ambiti che il diavolo tenta Gesù. Ma le risposte annientano il disegno del maligno, grazie alla fede nutrita dalla Parola. La Parola di Dio è ciò che siamo chiamati ad ascoltare, a fare nostra e a mettere in pratica contro le tentazioni del male.
Le provocazioni, a cui Gesù ha saputo resistere, sono continuamente presenti nella nostra vita, dove le azioni del male continuamente aleggiano e tentano di penetrare nell’umanità, dove trovano tutti gli spiragli aperti dell’aridità e dell’egoismo. La tentazione più comune all’umanità è il perdere la speranza, il sentirsi isolati, il vedere oscurare la luce di Dio, che continuamente ci illumina con la sua misericordia. Non è con la nostra sola forza che possiamo resistere alle tentazioni ed essere testimoni luminosi di Gesù: è grazie allo Spirito Santo, che ha guidato Gesù nel deserto e di cui anche noi siamo ricolmi, in forza del nostro Battesimo, che possiamo quotidianamente vincere la nostra battaglia contro il male, che tenta di oscurare i nostri cuori impedendoci di accogliere la luce divina, che ci dona Gesù con la sua Risurrezione.
In questo tempo siamo chiamati a mettere in atto le tre pratiche della pietà cristiana: il digiuno, la preghiera e le opere di carità fraterna. Il nostro obiettivo è chiaro: l’attesa della Pasqua.
L’esperienza religiosa deve essere purificata dalle incrostazioni dell’egoismo e dell’orgoglio. La tentazione ci espone alla prova, ci spinge a compiere scelte decise, sull’esempio di Gesù, che rifiuta lo stile di Satana e punta verso realtà più semplici, quali il rispetto della persona, il servizio vero, l’amore verso l’unico Dio e la sua Parola. La vera sfida è tornare al centro, al cuore e trovarvi la voce che ci parla e ci conferma come nessuna voce umana potrebbe fare. Soltanto una vita di costante ed intima comunione con Dio può rivelarci il nostro vero io. Ciò non è per nulla facile. E’ necessaria una disciplina seria e perseverante di solitudine, silenzio e preghiera.
Tale disciplina non ci ricompenserà con uno sfolgorante successo esteriore, ma con la luce interiore, che illumina tutto il nostro essere e ci consente di essere testimoni liberi della presenza di Dio nella nostra vita.
La Quaresima sia per noi il tempo favorevole dell’incontro con Dio, ma anche della purificazione del nostro credere attraverso uno stile sobrio, con il quale siamo chiamati a rapportarci agli altri.