In questa solennità del Corpus Domini siamo nel capitolo sesto di Giovanni. Gesù proclama il lungo discorso del Pane. Nel vangelo di Giovanni non è una novità un Gesù che si autodefinisce, che pian piano ci dà indizi sulla sua identità di Dio e di uomo: io sono la via, la verità, la vita, io sono il buon pastore. Oggi il Signore si definisce pane. Un elemento essenziale per vivere, il più naturale e il più indispensabile. Pane è sinonimo di vita e benedizione. Pane vivo, pane che viene dall’alto, pane che è anticipo di eternità e vita del mondo. Questo il grande dono e mistero dell’Eucarestia.
Il discorso di Gesù è sempre più chiaro e nello stesso tempo più duro. «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Questa domanda esprime tutta la fatica che i giudei e la comunità di Giovanni fanno per comprendere le parole di Gesù. Per noi anche è faticoso comprenderne il senso profondo, il messaggio di vita insito nella scelta di Dio di darsi interamente a noi fino a offrirsi continuamente nelle nostre povere mani. È difficile, come si può comprendere questo Dio che è rimasto così unito all’uomo, lo ha preferito come dimora perpetua. Oggi come allora questo è un discorso duro perché la scelta di Dio richiama le scelte degli uomini.
Si può constatare che il Signore non può offrire la sua vita se non ci si decide ad accoglierla. Bisogna prendere, fare proprio, mangiare e assimilare. È necessario diventare tutt’uno con Lui e come Lui. Solo così il dono diventa dono per chi lo riceve. Oggi si celebra non tanto quanto Dio aveva già detto e dato nell’ultima cena, ma soprattutto la capacità di fare spazio a questo nuovo ed inedito modo di esistere, vivere spezzandosi. È l’atto del “per sempre” di Dio, senza revoche e ripensamenti, segno tangibile della sua alleanza eterna con gli uomini.
Il dono della sua vita passa per il “corpo”, primo approccio di relazione umana, attraverso il corpo nascono i primi legami. E il Signore ci dona il suo corpo e il suo sangue, la massima espressione dell’Amore. A Gesù non basta darci qui la sua presenza, ma vuole darci quello che appartiene solo a lui: l’eternità. L’Eucarestia è il cibo dell’immortalità, pegno della vita futura come preghiamo con la liturgia.
Questa la straordinaria scelta di Dio di unire cielo e terra per sempre, in un piccolo dono che non rimane in alto, ma ci rende possibile raggiungere l’Alto e l’Altro.
“Non abbiate paura” (Mt 10,26.28.31) è l’affermazione che dà sicurezza, fiducia, che rianima la speranza, che ci fa superare tutto quanto può far spavento e far rinunciare alla coraggiosa, aperta e pubblica proclamazione del vangelo. C’è da “testimoniare sui tetti”, quindi a voce alta!
Il Signore Gesù annuncia ai discepoli le sofferenze che, come lui, anche loro dovranno affrontare. Esortando a non avere paura, invita ad annunciare la buona novella, nella certezza che ogni vita è nelle mani del Padre a cui nulla è nascosto. Il discepolo deve vivere già fin d’ora in comunione con lui. Questo comporta delle scelte che necessariamente sono ostacolate da coloro che pensano secondo il “mondo” e non secondo Dio.Come i discepoli, siamo chiamati ad andare, ad uscire dai nostri “cenacoli” per annunciare a tutti l’amore del Padre per ogni uomo. In questo sta la nostra forza: il suo amore fedele che sostiene, guida e precede.
Il Signore ci mette in guardia da false paure: quella di aprirgli la porta, di riconoscerlo davanti agli uomini, di proclamare il suo messaggio. Egli non elimina la paura, ma le dà un senso: guardare a ciò che è essenziale e non dare molta importanza a ciò che non ha valore definitivo. Il nostro atteggiamento diviene così timore filiale nei confronti di Dio Padre, ci libera dalla paura degli uomini, da tutte le situazioni di sofferenza e di angoscia, di morte e di male. La vita terrena certamente ha un valore, ma per il cristiano non è definitivo; per questo Gesù ci esorta a non temere coloro che uccidono il corpo, poiché tutto, anche la morte, è nelle mani e nel cuore di Dio. Sia lui la nostra speranza. Là dove l’azione degli uomini termina e non ha più potere, lì interviene Dio con la sua forza divina. Lasciamoci, dunque, attirare e sedurre dal suo amore infinito ed eterno pregando con le parole della preghiera Colletta di questa domenica: “O Dio, che affidi alla nostra debolezza l’annunzio profetico della tua parola, sostienici con la forza del tuo Spirito, perché non ci vergogniamo mai della nostra fede, ma confessiamo con tutta franchezza il tuo nome davanti agli uomini, per essere riconosciuti da te nel giorno della tua venuta”. Amen.
La pericope odierna tratta dal vangelo di san Giovanni ci aiuta a riflettere con il cuore colmo di gioia e di speranza. Di fatto, l’evangelista sottolinea che quando le porte sono chiuse (v. 19), Gesù in persona appare per portare la pace (v. 19). Che bella questa immagine che ci lascia intravvedere tante situazioni della nostra vita. Quando tutto è buio, privo di senso e quando tutto ci schiaccia in maniera forte tanto da farci chiudere in noi stessi, Gesù viene in noi e ci dona “pace”, serenità perché solo con la sua presenza possiamo intendere gli eventi difficili che spesso si propongono a noi.
Fatta questa esperienza del Risorto, però, riceviamo da Lui un mandato (v. 21), quello cioè, di portare la pace che abbiamo ricevuto a tutti coloro che condividono l’esistenza con noi. Certo, può sembrare un compito arduo, visto che oggi il mondo non vuol più sentire parlare di Dio o di resurrezione, ma non siamo soli! Abbiamo l’aiuto dello Spirito Santo che il Signore ci dona per diffondere ovunque il suo perdono, la sua misericordia… dono di cui tutti abbiamo bisogno.
In questa domenica di pentecoste che conclude il ciclo pasquale, il dono dello Spirito ci rende saldi nella fede e ci rende uomini e donne del vangelo perché saremo uomini e donne di fede che è l’opera dello Spirito che ci radica profondamente in Cristo morto e risorto per noi. Divenuti così creature nuove, ci apriremo sempre più al dono di Dio, lo Spirito, che ci trasforma e ci spinge a cercare le “cose di lassù”, quelle certe, sicure, le uniche che riempiono di gioia e di significato la nostra vita. Mentre il mondo si riempie di oggetti quasi inutili e si chiude dietro porte che sembrano blindate verso il fratello, il diverso, l’emarginato, noi cristiani abbiamo il compito, come lievito nella massa, di portare in esso la bellezza dello Spirito che ci rende fratelli e che ci chiama all’unità!
Uniti in preghiera, in questa solennità della pentecoste che ci rende Chiesa, chiediamo per tutti al Signore il dono pasquale dello Spirito perché operi meraviglie in noi e in tutti coloro che si apriranno a lui e alla sua azine risanatrice.
Prima di entrare nel Tempo Ordinario, la liturgia ci invita a meditare sul grande mistero della Santissima Trinità.
Sappiamo che quello trinitario costituisce il più alto e inaccessibile dei misteri della fede cristiana. Proclamare Dio come Trinità di persone, significa riconoscere che di Lui null’altro possiamo conoscere se non il suo amore per noi e colui che, di quell’amore, è il testimone per eccellenza, il Figlio inviato a soffrire, morire e risorgere perché quella conoscenza diventi la radice di vita che alimenta i nostri cuori. Proclamare l’amore di Dio per noi significa attingere alle radici della vita. L’amore di Dio ci raggiunge attraverso la redenzione realizzata da Cristo e opera in noi mediante lo Spirito Santo. Il credere in Gesù, che dice “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”, comporta sempre la speranza in una promessa: la vita vera non è mai immediata, richiede pazienza e attesa; il vangelo ce lo ricorda spesso:” Se il chicco di grano caduto in terra non muore, non porta frutto”; per avere la vita, dobbiamo essere disposti a perderla, impegnando il nostro cuore, consegnandoci con fiducia.
Il nome che Dio proclama:” Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà” si riassume nell’esperienza che il Signore è per noi e splende in tutta la sua bellezza; lo Spirito Santo ci apre a questa esperienza e ci permette la piena comunione con l’amore del Padre. E’ caratteristico che il cristiano, tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la confessione trinitaria, come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempie tutta la mia persona, invitandomi a partecipare alla stessa comunione di vita, che intercorre tra le tre persone divine.
A noi è dato di sperimentare il Dio-Trinità all’interno di relazioni di vita rispettose e discrete. Nel rapporto armonico delle tre persone divine trovano radicamento e senso le nostre esperienze più significative nella vita familiare ed in quella fraterna, come in tutti i nostri rapporti con il prossimo. Inchiniamoci umilmente dinanzi al mistero e lasciamoci guidare spiritualmente da S. Elisabetta della Trinità che, felicissima di stare con “i suoi tre”, così pregava:
“O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in te, immobile e quieta, come se l’anima fosse già nell’eternità. Pacifica l’anima mia: rendila tuo cielo, tua prediletta dimora e luogo del tuo riposo. Che io non ti lasci mai solo: ma tutta io vi sia vigile e attiva nella mia fede, immersa nell’adorazione…”
In questa sesta domenica di Pasqua leggiamo ancora il vangelo di Giovanni al capitolo 14. Una lunga spiegazione che Gesù fa ai suoi discepoli, un discorso esplicativo su com’è, dovrà essere la relazione tra i discepoli e Lui. Gesù insiste quasi a voler inculcare il senso di tutto quello che avevano vissuto con Gesù e che con Lui e per Lui avrebbero continuato a vivere. Invita a rivedere le sue parole, all’interno di una relazione d’amore con Lui. Se mi amate…
Tutto inizia e si conclude con l’amore. Ascoltare e mettere in pratica la parola di Gesù diventa possibile se si ama. “Se mi amate osserverete i miei comandamenti”. La parola comandamento di solito ci mette in un atteggiamento di chiusura e di rifiuto. Non vogliamo essere comandati. Ma i comandamenti del Signore sono parole di amore, parole per la vita. Per questo si possono osservare solo se si ama. Amare non è facile per noi, e il Signore anche in questo ci accompagna e non ci lascia soli. L’esempio dell’amare ce lo ha dato lui e sa che da soli non potremo mai amare come lui
Allora la domanda non deve essere perché non riusciamo ad “osservare”, a vivere le parole di Gesù. Questa domanda che ci rimanda ad un elenco di ragioni analizzate solo dal punto di vista moralistico. C’è invece un’altra domanda che ci porta più in profondità, svela l’essenza di quello che siamo chiamati a vivere; “amiamo veramente il Signore?” il resto come stesso Gesù ci ricorda è conseguenza, è la risposta naturale ad una vocazione innata. Si segue solo chi si ama, si porta sempre con sé chi si ama. Gesù è consapevole che questo era il duro discorso da interiorizzare, e porta come esempio la sua relazione con il Padre. Indica così un livello d’amore che supera la sfera fisica, che potrà quindi continuare anche se Gesù se ne andrà da loro.
C’è un ulteriore passaggio che il Vangelo di oggi ci propone: “chi accoglie e osserva i miei comandamenti”. “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”: accogliere è il segreto per osservare e vivere, è un passaggio imprescindibile. Probabilmente Gesù comprende bene la fatica che facciamo ad accogliere i suoi discorsi a volte e esigenti, a volte incomprensibili, spesso duri da spingerci a scappare. Forse la sua preoccupazione non era rispettare alla lettera quello che Lui ha detto, ma accogliere la sua logica, questo lo scoglio, la fatica, sfida e gioia di ogni cristiano, ogni discepolo, della Chiesa intera. Non possiamo essere lasciati soli in questa importante missione. Ci manda il suo Spirito, Spirito di verità, di amore, di consiglio, che ci rivela il bene e rende capaci di attuarlo. Se scegliamo la via dell’amore non abbiamo da temere… Mettiamoci continuamente sulle orme del maestro e camminiamo con tutti gli uomini di buona volontà che desiderano dire Sì all’Amore!